Cenoni e pranzi natalizi sono ormai passati. E forse anche digeriti. Quest’anno, per lo più, in tono minore. Per lo meno per coloro che hanno ascoltato i Diktat governativi. Per paura. Se del COVID o delle sanzioni, poco conta. La paura è sempre un pessimo compagno di tavola. E un condimento che rende insapore ogni pietanza.
Ecco. Dirà qualcuno. Di nuovo le geremiadi sul Natale rovinato. Ma non sai pensare ad altro? Non ti rendi conto di ciò che sta succedendo? La pandemia. La gente che muore… Che vuoi che conti il Cenone di Natale?
Inutile rispondere. L’ho già fatto, più volte. E con più persone. Ti scontri sempre con la stessa espressione stolida di chi non comprende. Di chi non vuol capire. Di chi non accetta la verità elementare. Che non si dà vita senza morte. E viceversa.
Eppure è la Verità connessa proprio con questa festa. Che celebra l’abbondanza. E la celebra, però, nel momento di maggior penuria. Imbandire la tavola in modo particolarmente ricco, proprio nel momento del profondo inverno, quando la Terra sembra non dare più frutti. È atto evocativo. Oltre che bene augurante. È un rito che va molto al di là della semplice crapula.. Ed è, per eccellenza rito comunitario. Perché la famiglia è il nucleo della comunità. Di ogni comunità. Spirituale e civile. La famiglia in tutte le sue diramazioni. La “gens ” dei Romani. Generazioni riunite, a significare una trasmissione attraverso i saecula…
Ricordo che mio nonno, al pranzo di Natale, voleva dodici portate. Non importava la quantità. Una poteva essere costituita anche solo da un paio di noci. Importava che fossero dodici. Come i mesi dell’anno a venire. Antico uso contadino per auspicare prosperità.
E gli stessi cibi sul desco dovevano seguire un preciso disegno. La pasta ripiena. Lasagne, paste al forno, tortelli, ravioli, cappelletti, cappellacci… Tutte con lo stesso significato. Le farciture rappresentano ciò che si cela nella Terra in inverno. Ciò che è seme, ed urge per riaffiorare in Primavera. Una ricchezza non solo materiale. Perché la Natura è specchio di forze misteriose, che vengono da una dimensione oltre la parvenza fisica.
E non potevano mancare le carni. Bollite e arrostite. E arricchite da salse saporite. Dal gusto intenso. Come il Veneto cren. O i bagnet piemontesi… Carne di un volatile e di manzo o maiale. Ricordano la tradizione degli antichi sacrifici. Quando si sacrificava agli Dei del Cielo e della Terra. E poi ci si cibava di quelle carni cotte sul fuoco. Era una sorta di comunione. Agli Dei ascendeva il fumo ed il profumo. Gli uomini mangiavano ciò che restava. Un rito. Il Sacro Pasto. Un rito allegro, per altro. Perché vi erano anche le bevande. Il vino soprattutto.
E la lieve ebrezza, il torpore indotto dal pasto abbondante e dalle libagioni ancor più abbondanti induceva un diverso sognare… Apriva porte su altri mondi….
E ancora la frutta. L’uva e la melagrana. Simboli di resurrezione. Sacra la prima a Dyoniso. La seconda a Persefone. Divinità psicopompe. Che guidano le anime attraverso la soglia che separa il Mondo dei vivi da quello dei morti.
E i dolci. Panettone, pan giallo, panpepato, panforte, struffoli, cicerchiate, nadalino – da cui il moderno pandoro – strudel… Una varietà infinita, con una costante. Contengono sempre frutta, secca o candita. Come la focaccia di farro con cui si chiudevano i Saturnalia. La terra che serba in sé i semi della nuova fioritura. L’uso di mettere una moneta nell’impasto del dolce, come nel pudding inglese o nella Galletta dei Re dell’Epifania francese, ha lo stesso significato.
Bene, si potrebbe dire. Hai accampato tutta una serie di scuse culturali, un profllvio di citazioni, riferimenti solo per giustificare un’indegna abbuffata. Il desiderio di mangiare a quattro palmenti in spregio alle sofferenze, al dolore degli altri. Un elogio del più bieco egoismo…

Però, vedete.. Nessuno vi ha proibito, in queste feste, di intripparvi come porci, di ubriacarvi, di grufolare nei vostri truogoli privati. Anzi… Quello che si è voluto, è che lo faceste in solitudine. Senza rapporto con altri. Non è stata proibita la crapula. È stato vietato l’agape comunitario.
Si è distrutto quel tanto, o quel poco, che restava di un rito antichissimo. Ed è rimasta la solitudine. Il triste degrado dell’uomo che si ingozza come un pollo da allevamento. E sappiamo bene quale sia il destino dei polli alla fine.