Dal peculato alla turbativa d’asta. Sono le accuse che hanno portato al rinvio a giudizio di 26 persone in relazione alle strane vicende del Salone del libro di Torino.
Sì, proprio quella manifestazione super partes e gestita in modo così aperto e pluralista da aver censurato un libro su Salvini e l’intera casa editrice che aveva osato una simile provocazione.
Ovviamente un rinvio a giudizio non è una condanna e, soprattutto nella capitale subalpina, i personaggi che fanno parte del Sistema Torino riescono sempre a galleggiare oltre i marosi giudiziari. Dunque si può scommettere su una conclusione positiva del processo. Il che non significa assolutamente nulla in termini di innocenza o colpevolezza.
Resta, invece, l’amarezza per la gestione del potere da parte di lorsignori che si sentono al di sopra di tutto e di tutti. In nome del bene comune, sia chiaro. Pazienza se le nomine sono sempre le stesse, se le persone favorite fanno parte dei medesimi giri, se poi i risultati vengono gonfiati dai media di servizio perfettamente allineati o zerbinati.
Ed anche la censura dei libri scomodi e politicamente scorretti non è una sopraffazione inaccettabile, ma è semplicemente un intervento chirurgico per estirpare il male ed impedire che possa contagiare i lettori sani. Quei lettori sani che, evidentemente, sono già una minoranza in un Piemonte che ha prima mandato a casa Fassino, ex sindaco rinviato a giudizio, e poi l’ex assessore alla Cultura (rinviata a giudizio).
Segnali piuttosto chiari sull’insofferenza generale nei confronti di una gestione culturale che andrebbe radicalmente modificata. Ovviamente gli sconfitti restano tenacemente abbarbicati alle poltrone di comando. Nessun nobile gesto di rinuncia, di dimissioni. E non per la vicenda giudiziaria, che vale poco, ma per il disgusto manifestato dagli elettori piemontesi. Si va avanti comunque, forti del sostegno incondizionato dei giornalisti locali sempre più scollegati dalla realtà che dovrebbero raccontare.