Sarà perché – nonostante la retorica dei Mattarella di turno – tutti sono consapevoli che l’unica guerra mondiale vinta è stata la prima; sarà perché nell’immaginario collettivo gli Alpini sono qualcosa di molto diverso dai marescialli di fureria trasformati in generali coperti di medaglie per aver portato le divise dal sarto nei tempi giusti; sarà perché la montagna conserva un fascino particolare anche mentre viene scempiata da orrendi impianti di risalita democratici che devono garantire la conquista delle vette anche a chi non riesce a far le scale di casa.
Sarà per questi e per altri mille motivi ma la guerra sulle montagne e sui ghiacciai continua ad affascinare. Che si tratti dei saggi super documentati di uno storico come Marco Cimmino o di un romanzo come quello di Stefano Ardito, “Il sangue sotto la neve”, pubblicato da Rizzoli e che sarà presentato ad Ayas Champoluc il 20 agosto per la rassegna Monterosa racconta.
È romano, Ardito, e già questo appare curioso per un libro sugli Alpini, sulla guerra combattuta in alta quota nel Nord Est. Ma l’autore è anche un uomo che ha girato il mondo, che lo ha raccontato dopo aver conosciuto popoli e culture estremamente differenti. Dimostrando una rara capacità di comprendere usi, costumi, mentalità.
Un approccio che Ardito utilizza anche per raccontare l’incontro tra Alpini di regioni diverse, di ceti diversi. Uniti dalla sfida quotidiana alla morte, dalla precarietà e dai disagi dei pochi giorni tranquilli. Con la neve a coprire il sangue ed i corpi dilaniati degli Alpini mandati a morire spesso inutilmente, per obbedire a vecchi cialtroni che nulla avevano compreso della guerra moderna.
Un sangue che, però, pulsa anche per amore. Perché tra un assalto ed un bombardamento la vita prosegue ed ha il sopravvento. Amori, amicizie, rapporti veri come era vera la montagna quando non era per tutti.