Il Viaggiare, con gli anni, diventa spesso un ritornare. Un ripercorrere sentieri per cui si è passati molti, sovente moltissimi, anni prima. È il significato, in senso lato, di Nòstos. E Nòstoi venivano infatti chiamati i poemi ciclici che parlavano del Ritorno degli Eroi che si erano battuti sotto le mura di Troia. Su tutti, naturalmente, l’Odissea omerica. L’unico giunto sino a noi.
Quella, però, era la narrazione del Ritorno a casa. La “nostalgia” per la patria, per gli amici. Per la famiglia. Era la nostalgia dell’esule. Di cui parla, con accenti struggenti, il giovane Seneca, nella sua Consolatio ad Helviam Matrem. E prima ancora Cicerone nelle lettere ai Familiari.
Ma vi è, anche, la nostalgia per luoghi che non sono per noi casa o patria. Che abbiamo solo visitato, o dove abbiamo trascorso brevi periodi di tempo, nel passato. Un passato lontano, però. Spesso remoto. Perché questa è una nostalgia diversa. Non per un luogo in sé, ma per lo sguardo con cui lo vedemmo. Per ciò che noi eravamo allora. E che, inevitabilmente, oggi non siamo più. Se non in parte.
Perché se è, forse, vero che viaggiare è un modo per conoscere se stessi, è, parimenti, sicuro che tornare in determinati luoghi è come cercare di ritrovare se stessi. Ritrovarsi così come si era nel passato. La nostalgia di come eravamo. Se vogliamo, della nostra giovinezza.
Con lo scorrere degli anni, cambiamo. Molto, e non solo fisicamente. Anzi, è soprattutto il nostro mondo interiore che muta.
Il paradosso è che ben difficilmente ce ne rendiamo conto. Crediamo di essere sempre la stessa persona. Lo stesso “io”. E non vediamo quanto siamo divenuti diversi. Non lo vediamo perché troppo avviluppati nei moti, più o meno torbidi, della nostra psiche. Nel soliloquio improduttivo della nostra mente.
Gli altri vedono quanto siamo cambiati. Potessimo vedere i loro occhi, specchiarci, ce ne renderemmo conto. Ma non siamo capaci di farlo. Vediamo solo le nostre rappresentazioni.
Poi, magari, torni per una vacanza in un luogo ove andavi da ragazzo. Non sai esattamente perché. Ti viene voglia di rivederlo, ti dici. In realtà vi è qualcosa di più profondo. Qualcosa che ti attrae come i Monti di Magnete che la leggenda poneva al di là del Mare Oceano.
Hai un’improvvisa fitta di nostalgia. E vuoi tornare. Per rivedere quei luoghi, ti dici. Come sono diventati, dopo tanti, troppi anni. In realtà vuoi ritrovare te stesso. Com’eri. E come non sei più.
E torni. E ti guardi intorno. Certo, molto del paesaggio, diciamo così, antropico è cambiato. Negozi, alberghi, edifici… Ma quello non ti stupisce. Non ti fa effetto. È normale. Te lo aspettavi.
Ma poi guardi il paesaggio naturale. E lì lo stupore ti prende come un colpo alla bocca dello stomaco. Perché quello è, sicuramente, lo stesso. Immutato. Ma tu lo vedi diverso. Perché sei tu ad essere cambiato.
Per me un tale ritorno non potrebbe che essere a San Vito di Cadore. Luogo dell’infanzia e della giovinezza. Dalle foto vedo che il piccolo centro è molto cambiato. I negozi sono diversi. Gli hotel hanno sostituito, ormai, i vecchi alberghetti familiari di un tempo. Quello dove sono andato per tantissimi anni neppure più esiste…
Ma le montagne sono sempre quelle. Il Pelmo, le Rocchette, la Croda da Lago. Il Marcora, il Sorapis. E l’Antelao, maestoso. In lontananza, verso Cortina, il profilo delle Tofane.
E uguale è il piccolo lago di Mosigo, una pozza verde smeraldo dove andavo a pesca di trote con mio padre. Uguali i boschi di abeti e larici. Uguali le macchie di baranci e mughi, col loro intenso profumo. E forse c’è ancora il vecchio cimitero abbandonato alle pendici della frazione di Costa. Luogo di prove di coraggio della mia fanciullezza. Entrarvi di notte e resistere alla paura. Contemplando, talvolta, le fiamme inquiete dei fuochi fatui…
Tutto questo non può essere cambiato.
Eppure so con certezza che, se vi tornassi oggi, tutto mi apparirebbe diverso. Perché diversi sono i miei occhi. Diverso sono io.
Sarebbe come per il vecchio Ulisse di “L’ultimo viaggio”, di Pascoli. Che abbandona Itaca, e torna sui luoghi delle sue imprese.
Ma non trova più nulla. Né i Ciclopi, né i Lotofagi… Neppure Circe.
Non li trova, perché non è più in grado di vederli. I suoi occhi sono vecchi, e non riescono più a contemplare il mito. Solo alla fine, giunge a Ogigia. Ritrova Calypso. E muore…
Beh, io a San Vito ci voglio comunque ritornare, però. Voglio rivederla quella che è stata la mia Valle incantata. Luogo di fantasie, avventure… Amori.
Magari ci andrò presto. Con mio figlio. E forse nel suo sguardo mi riuscirà di cogliere un riflesso del mio. Del mio sguardo di tanti, tantissimi anni fa.