La proclamazione ufficiale della vittoria al primo turno delle elezioni presidenziali di Evo Morales in Bolivia ha generato forti tensioni nel Paese andino ma anche grandi aspettative negli altri due Stati in procinto di eleggere il proprio presidente: l’Argentina e l’Uruguay.
La riconferma del leader indio, infatti, apre le porte ad un possibile effetto domino nelle nazioni del sud del continente americano.
Se in Argentina sembrerebbero esserci pochi dubbi sull’affermazione al primo turno del ticket dei Fernández, è dall’esito in Uruguay che proviene maggiore incertezza. Daniel Martínez, candidato del Frente Amplio (Fronte Ampio, FA), seppur in testa oscillerebbe tra il 34 e il 40% dei consensi, lontano dall’affermazione al primo turno. La lista dei suoi inseguitori vede Luis Lacalle Pou del Partido Nacional de Uruguay o Partido Blanco (Partito Nazionale dell’Uruguay o Partito Bianco, PN) tra il 22 e il 26% dei voti, Ernesto Talvi del Partido Colorado (Partito Colorato, PC) tra il 12 e il 18% dei consensi e Guido Manini Ríos di Cabildo Abierto (Capitolo Aperto, CA) tra l’8 e il 10% con gli altri sfidanti, tra cui Pablo Mieres del Partido Indipendiente (Partito Indipendente, PI) e Gonzalo Abella sostenuto da Unidad Popular (Unità Popolare, UP) accumulare complessivamente meno del 6%.
Il voto dei 2.700.000 cittadini uruguaiani aventi diritto potrebbe generare anche quel complicatissimo passaggio di testimone tra i leader di riferimento del socialismo populista latinoamericano e i propri delfini, seppur Martínez con i suoi sessantadue anni non rappresenti una generazione del tutto diversa da quella dell’uscente Tabaré Vázquez o dell’ex presidente José “Pepe” Mujica. Qualora la partita non dovesse chiudersi subito si procederà al secondo turno, tra i due sfidanti che avranno ottenuto più voti, domenica 24 novembre.
Un mese, quello che ci attende, che potrebbe generare il rilancio in grande stile delle politiche di redistribuzione del socialismo del XXI secolo che, ad esempio, in Uruguay hanno ridotto la povertà dal 40% al 7% nel corso degli ultimi tre mandati presidenziali.