Piove. A dirotto. Per giorni. Con rare schiarite. Non è freddo. Una fine gennaio strana. Dicevano, i vecchi, che il Gennaio piovoso non porta grano in estate… Ma era il mondo di ieri. Più semplice. Più autosufficiente. Più naturale. Oggi….
Comunque devo uscire. E dovrei portare l’ombrello. Che detesto. Un giaccone col cappuccio. Le galosce… Manco fossi a Venezia… Lì, almeno, mettono le passerelle. Qui a Roma, l’acqua ruscella per le strade. Forma pozze fangosoe che sembrano stagni. I tombini otturati. Gli asfalti sconnessi. Il simbolo concreto di un paese in decomposizione…

Metto il giaccone. Ed esco. Della mascherina… me ne frego. Non c’è in giro nessuno. Qualche vago fantasma imbaccuccato come e peggio di me. Però anche mascherinato… Sono quelli che, probabilmente, la tengono anche quando dormono. Non sia mai che Conte, l’onniveggente, li scopra. E li punisca…
Cammino sotto la pioggia. Il giaccone protegge, certo. Ma ci vorrebbe ben altro. Ci vorrebbe.. . il Tabarro.
Come quello che portava il bisnonno. Che non ho visto mai – morì molto vecchio, dopo essersi fatto Grande Guerra e Spagnola, la pandemia, quella vera… – con un cappotto o un giaccone. E neppure un ombrello. Cappellaccio in testa, e Tabarro. Come un personaggio uscito dalle pagine di Guareschi . Anche se era montanaro insubre, e non emiliano della Bassa. Ma l’Italia, almeno al Nord, era tutta così. Gli uomini col Tabarro. Soprattutto tra Gennaio e Febbraio. I mesi delle febbri. Perché il Tabarro è caldo, di lana spessa. Ti copre da capo a piedi, ma lascia respirare il corpo. E non sudi. Sano.
Parlo per esperienza, non per sentito dire. Io un Tabarro ce l’ho. Un bel Tabarro elegante da sera, con il collo di velluto nero e la catenina di bronzo dorato. Se ne sta lì. Nell’armadio. A Roma mi guarderebbero come un pazzo. Qui è normale girare con creste multicolori sulla testa, o con jeans a brandelli. Ma il Tabarro no.

Per altro anche su l’ho portato ben poco. Per andare qualche volta a teatro. In quanto non strapazza e gualcisce l’abito da sera. E poi a Carnevale. I Carnevali di Venezia, dove era proprio in tono…
Mi ricordo un Carnevale sotto la neve. Da giovedì a martedì Grasso. Nevicate abbondanti, e cumuli di neve nelle calli e nei campi. Un paesaggio inusuale. E magico. Reso ancor più surreale dal fatto che quello era l’anno del gemellaggio con il Carnevale di Napoli. E la città era letteralmente invasa da, festanti e rumorosi, Pulcinella. In tutte le declinazioni della maschera e del costume. Sembrava che un disegno di Giandomenico Tiepolo avesse preso vita…
Il mio Tabarro è nero. Come la notte. Infatti è detto del Nobil Homo. Quello dei mercanti era, per lo più, grigio. Ricordo in Piazza Borsa, a San Donà di Piave. Quando ancora si tenevano le contrattazioni delle granaglie e del bestiame. Non ricordo la giornata. Il martedì o il giovedì probabilmente. Ma potrei sbagliare. Sono passati quarant’anni…
Allora potevi vedere ancora questi agrari con Tabarro e Cappellaccio. E spesso il bastone di bosso. Venivano lì, in paese, a trattare affari. Bevevano grappa, ché faceva freddo e ci si doveva immunizzare da febbri e raffreddori. Perché quella era la cura. Grappa e bagni caldi. Come nei racconti di don Camillo e Peppone. Non c’erano vaccini salvifici. E il parroco benediva ancora le stalle a Sant ‘Antonio.

Se ne stavano lì per ore. Intabarrati. A bere e discutere fitto fitto. Ogni tanto si spuntavano sulla mano e se le stringevano forte. L’ affare era fatto. E giravano milioni. Senza bisogno di carte e notai. Perché la parola e la stretta di mano, tra Uomini, bastava.
Poco igienico forse, a fronte di quest’epoca che puzza di disinfettante, che anela alla distanza, alla sterilizzazione e alla sterilità. Poco igienico, ma molto più sano. E pulito.
Il Tabarro ha anche una sua poesia. Che Fellini ha rappresentato nel suo, frammentario, capolavoro, Armacord. E Puccini, ancor prima, messo in musica su libretto dell’Adami. Che prese spunto da un’opera del francese Didier Gold. Lavoro non facile, ché il Gold scriveva parte in francese, parte in argot. Il dialetto di Parigi, quello degli Impiccati di François Villon. Ma Giuseppe Adani, veronese, era un buon drammaturgo. E ne trasse uno dei pochi libretti felici avuti a disposizione dal Puccini. Con la Turandot. Che sempre dell’Adami fu opera.
Andò in scena al Metropolitan di New York. Ma è, paradossalmente, il Puccini più strapaesano. Più capace di trasferire in musica un mondo, emozionale e corporeo, popolare…
D’altro canto era il suo mondo. L’Italia sana e popolare, zeppa di contraddizioni, talvolta violenta e sempre brusca nei modi. L’Italia che andò, di lì a poco, a combattere sul Piave e sull’Isonzo. Che affrontò senza paura epidemie e carestie. Italia di uomini semplici, forse con poca istruzione, ma molta, e profonda, cultura.
Un’Italia ormai riposta nell’armadio, tra la naftalina. Come il mio vecchio Tabarro.
Fuori… beh, fuori circola ben altro…
1 commento
Adoro il tabarro, ma ho ripiegato sul loden perché il tabarro è difficile da trovare. Qualche anno fa c’era il tabarrificio Zara a Venezia, ma chissà se esiste ancora. Splendido il tabarro, come autentica era l’Italia una volta nel bene e nel male. E rileggo il buon vecchio libro Cuore messo all’indice nelle scuole che ancora oggi mi emoziona e mi fa sentire Italiana, anche se questa non è più la mia Italia.