Monet che dipinge Venezia. Vi risiedette per due mesi circa, se non ricordo male, nell’autunno del 1908. L’ultimo viaggio, prima di ritirarsi a Giverny, nel suo giardino, a dipingere ninfee. Sino alla morte.
È un Monet non più giovane, ma ancora febbrile nella creatività. Durante il soggiorno in laguna dipinge di continuo. En plein air, come era suo costume, insofferente da sempre al chiuso degli Ateliers. Così come, da ragazzo, non sopportava la costrizione delle aule scolastiche.
Trentotto, più o meno, tele in neppure due mesi. Paesaggi veneziani. I palazzi, i campi, i canali… la laguna. E sopratutto la luce. La particolarissima luminosità di Venezia. Che sorprende il Maestro. E lo spinge a scrivere che “Venezia è l’impressionismo fatto pietra”.
Intendiamoci. Io non sono un critico, né uno storico dell’arte. E questo tutto può essere, tranne che un saggio, in qualche misura dotto o esaustivo. Quello che mi colpisce – o interessa, o suggestiona, fate voi – è questa frase di Monet: “l’impressionismo fatto Pietra”. Perché, alla fine, l’arte impressionista – che scandalizzò la Francia accademica di fine ottocento e rivoluzionò la tecnica pittorica – altro non è che cogliere…la luce. O meglio, l’impressione della luce. Dalla quale tutte le forme sorgono. E nella quale, con abili pennellate, tutte le forme finiscono per dissolversi.
Monet non credo che ne fosse cosciente. Era un genio istintivo. Poco propenso a teorizzare in astratto. Per lui dipingere era come respirare. Le impressioni di luce, che si componevano e scomponevano nel continuo divenire delle cose, gli venivano incontro nel sole e nel vento. Improvvise. E lui così le coglieva. E le trasferita nei colori. Sulla tela. Per questo non aveva mai amato gli Ateliers. Il chiuso degli studi. Il lavoro di progettazione, programmazione, disegno. Dipingeva febbrile, instancabile. All’aperto. Inseguendo la luce. Sulle scogliere normanne, come nelle vie di Parigi. O nei vicoli di Londra. Tra i fiordi e le aurore incantate della Norvegia. E sulle lagune di Venezia, dalle quali sembrano sorgere incredibili architetture intessute di acque e riflessi…
No, Monet, certo, non lo sapeva, almeno non ne era cosciente. Ma quello che lui chiamava “impressionismo” era cosa, arte, molto più antica. Che gli uomini di altre epoche avevano denominato Magia.
Infatti, la Magia, quella Sacra – e chi volesse saperne qualcosa, legga Massimo Scaligero, “La Luce” e appunto “Magia Sacra” – non era un complesso confuso di superstizioni, riti strampalati, giaculatorie senza senso, formule oscure… Era un’arte. Anzi era l’Arte per eccellenza. Dalla quale tutte le altre poesia e musica, pittura e scultura, architettura, sono derivate. Come tecniche, nel senso platonico del termine. Delle quali abbiamo, poi, perduto il senso primo. E il ricordo dell’origine comune.
Arte Regia, di percepire la Luce. E disincantarla dalla materia in cui sembra imprigionata. Sembra soltanto, perché, in realtà, la materia stessa è luce…. Di qui, la tradizione che, lungo tutto il Tardo Antico e il Medioevo volle che Virgilio fosse un, potente, Mago. E non un semplice pubblicitario della politica di Augusto. Come pretendiamo, oggi, nella nostra, supponente, ignoranza…
E Taliesin, e Merlino non erano buffi personaggi con una bacchetta in mano, che facevano strani giochi di prestigio. Erano musici e cantori, capaci di evocare con il suono e la parola la Luce. Incantata nelle pietre. Come Orfeo, che le pietre stesse animava col canto e il suono della cetra. Come Lino nel mito trace.
Arte che ancora era nota a uomini come Raimondo Lullo, John Dee, Giordano Bruno…
E che ha portato alla costruzione del Partenone e della Cattedrale Gotica. Alla musica che Beethoven sentì risuonare nel silenzio profondo della sua sordità. Alla poesia di Dante e alle folgorazioni dei Cantos di Pound…
Quando volgo lo sguardo intorno, per le vie allucinate e luride di questa città immemore di ciò che fu… Quando ascolto il rumore ossessivo di ciò che viene, oggi, spacciato (termine in sé significativo) per musica… Quando sento il degrado delle parole, ridotte a versi indegni degli animali, e percepisco il costante abruttimento degli uomini, provocato da una, pretesa, intelligenza astratta e morta, quindi capace solo di percepire cadaveri… e terrorizzata da questo…
Allora, tendo a sprofondare in un autentico abisso di… noia. Intesa come ben peggiore di ogni dolore, già da Leopardi…
Ma se guardo un quadro di Monet, o anche solo ricordo quel suo tratto capace di scomporre ogni forma in colore, e ogni colore in luce… la noia si rivela per quello che è. Mera, ancorché possente, illusione. Incantamento della Luce nella pietra. E, per un attimo, svanisce.