Qualche settimana fa il Cile veniva indicato in tutto il mondo come uno dei Paesi più tranquilli del Sudamerica.
Le proteste popolari generate dal rincaro del costo dei trasporti, deciso dall’amministrazione del presidente Sebastián Piñera, hanno ribaltato la visione che molti avevano dello Stato latinoamericano.
Finora sono diciotto i morti causati da incendi appiccati da frange estremiste tra i manifestanti e uso smoderato della forza da parte di polizia ed esercito. Esercito che è stato chiamato in causa per via dello stato d’emergenza con relativo coprifuoco deciso dall’esecutivo liberista, una misura che i cileni pensavano di aver scongiurato con il ritorno alla democrazia dopo la fine della dittatura militare di Augusto Pinochet.
Le vittime rimaste ferite, in molti casi in modo grave, sono già diverse centinaia e gli arresti sono superiori alle mille unità. Quali sono allora le ceneri sotto le quali covava la rabbia della maggioranza dei cittadini cileni? Dalla fine degli anni Ottanta in Cile si sono susseguiti governi progressisti, alternati solo dal primo e dall’attuale secondo mandato di Piñera, assolutamente incapaci di affrontare le principali problematiche percepite dalla popolazione.
In primis la Costituzione della nazione sudamericana è ancora oggi quella varata dal regime militare nel 1980. Seppur privi di una maggioranza dei due terzi necessaria alla modifica della Carta costituzionale, i partiti di sinistra non hanno mai provato nemmeno a convocare un’Assemblea Costituente sulla falsariga di quanto avvenuto nei primi anni Duemila in Venezuela, Bolivia ed Ecuador.
Anche l’attuale decisione da parte delle opposizioni di disertare la convocazione da parte della maggioranza ad un tavolo di confronto a Palacio de La Moneda si inserisce più nell’incapacità di trovare soluzioni comuni da parte degli esponenti politici cileni che nella volontà di cavalcare i movimenti di protesta non aventi dei veri e propri leader o partiti di riferimento.
Nella nazione dove furono sperimentate le ricette neoliberiste, che qualche anno dopo Ronald Reagan e Margaret Tchatcher avrebbero applicato al mondo anglosassone, a farne le spese sono le categorie più esposte. Quella dei pensionati, ad esempio, è legata ad un sistema di gestione a capitalizzazione e non a ripartizione affidato ad un vero e proprio oligopolio (se ne occupano appena sei società).
Di pari passo il Cile si presenta come uno dei Paesi con i più alti tassi di diseguaglianza economica considerando che l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza, mentre il 10% più ricco ne ha il 60%. Di fatto è possibile affermare, come ha recentemente dichiarato la scrittrice e nipote del presidente cileno deposto con un colpo di Stato nel 1973 Isabel Allende, che il Paese è in mano a poche famiglie.
Il vero e proprio motore delle proteste popolari è rappresentato dagli studenti, anche loro colpiti a lungo da un sistema in larga parte privato che non consentiva parità nell’accesso agli studi universitari prima della riforma attuata dal secondo governo di Michelle Bachelet nel dicembre 2015.
I cambiamenti necessari al Cile e ai suoi abitanti dovranno essere portati avanti dall’intera classe politica e non solo da una parte di essa. In questo senso le aperture, dopo le assurde dichiarazioni di guerra, da parte del presidente Piñera che si è scusato per i toni e le parole utilizzate nei primi giorni delle proteste e inerenti dieci riforme, dovranno tener conto dell’assenza di una maggioranza nei due rami del Parlamento e della collaborazione attiva alla loro stesura dei movimenti sindacali e popolari che oggi risultano più vicini ai bisogni della gente. Solo in questo modo si potrà intervenire efficacemente sull’aumento del salario e delle pensioni minime, creare un sistema con cui rendere meno oscillante il costo di forniture primarie come quella elettrica e un meccanismo di ridistribuzione delle entrate tra municipalità, per fare in modo che quelle con più gettito intervengano in aiuto di quelle più deboli.