A poco più di quattro anni dall’accordo di pace col governo colombiano, il partito delle Farc (non più Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo ma Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común) ha deciso, nel corso della seconda assemblea generale tenutasi a Medellín , di cambiare il proprio nome abbandonando per la prima volta lo storico acronimo che aveva caratterizzato la guerra civile più lunga del mondo.
La forza – che per via dell’accordo stipulato con l’allora presidente Santos siede nei due rami del Parlamento nazionale con 4 deputati e 4 senatori – si chiamerà Comúnes.
Molteplici gli obiettivi di questa scelta sicuramente non indolore per tanti ex guerriglieri: in primis c’è la speranza di mostrare ancora una volta la buona volontà a proseguire il percorso politico esautorando dissidenti e ala intransigente, in secundis quello di placare la sete di sangue e vendetta che ha colpito più di 250 ex militanti dalla fine del 2016 ad oggi, infine la precisa volontà di tendere una mano alla sinistra, partitica, sindacale e associativa, che negli ultimi anni ha raggiunto importanti risultati nell’unica nazione che non ha subito l’onda rosa del populismo di matrice socialista dei primi anni Duemila.

Le forze progressiste, infatti, hanno prima conteso la presidenza tramite la candidatura di Gustavo Petro alle elezioni del 2018 perdendo solo al ballottaggio, poi vinto le comunali della capitale Bogotà l’anno successivo con Claudia López e infine dato vita a costanti e rilevanti proteste popolari negli ultimi due anni riuscendo ad unire sotto un’unica istanza indigeni, studenti e lavoratori per chiedere una riforma strutturale del Paese come avvenuto recentemente in Cile.
L’enorme opportunità, mai palesatasi in precedenza, di cambiare le cose dall’interno del sistema ha quindi giocato un ruolo fondamentale nella decisione degli ex guerriglieri i cui posti alla Camera e al Senato saranno garantiti anche alle elezioni generali del prossimo anno ma non oltre, ulteriore causa che spinge verso la necessità di accordi per un partito che ha, per ora, ampiamente deluso nelle poche tornate in cui si è presentato col proprio simbolo e propri candidati.