Paolo Repetto, Il canto della luce. Scritti sull’arte, il melangolo, Genova 2021.
Charles Baudelaire, in un famoso sonetto de Les Fleurs du Mal, «Correspondances», parlava di une ténébreuse et profonde unité, / vaste comme la nuit et comme la clarté, nella quale les parfums, les couleurs et les sons se répondent. I fenomeni, e quindi le sensazioni, hanno un comune, misterioso sostrato, che con Kant potremmo chiamare noùmeno, vale a dire l’essenza pensabile, ma inconoscibile, della realtà in sé. La meta ultima dei mistici e dei poeti. Il luogo non-luogo dove gli opposti si conciliano, in barba al principio di non contraddizione. Il vivente paradosso che sfida la logica e la manda in tilt.
A dire di Joseph de Maistre: «Tutto si rapporta, nel mondo in cui viviamo, a un altro mondo che non vediamo. Viviamo al centro di un sistema di cose invisibili visibilmente manifestato». In altre parole, c’è una profondità, quella che i simbolisti chiamano “l’anima delle cose”, inaccessibile alla logica e al linguaggio razionale, e c’è una superficie nella quale essa si esprime sensibilmente, in forma analogica: attraverso arcane corrispondenze.
In questo senso, ha ragione Hugo von Hofmannsthal a dire che la profondità delle cose si nasconde nella loro superficie. Dietro, appunto, i colori, i suoni, i profumi, i sapori, le forme, che stuzzicano i nostri sensi e sono tramiti diversi ma tra loro affini per attingere all’unità misteriosa da cui promanano. È stato proprio Baudelaire a parlare di profumi, quali l’ambra, il muschio e l’incenso, qui chantent les transports de l’esprit et des sens. Ad assimilare l’esperienza estetica a quella estatica, all’excessus mentis dei mistici. E a individuare nella sinestesia, nella contaminazione percettiva delle sensazioni, il viatico per una poesia in grado di plonger au fond de l’Inconnu. Sulla sua scia, Rimbaud arriverà addirittura a teorizzare le dérèglement de tous les sens quale via più espediente per approdare all’ignoto.
Questa lunga premessa ci è parsa necessaria per dare ragione del libro che raccoglie gli ultimi scritti sull’arte di Paolo Repetto: una ricca summa di articoli e saggi da cui traspare un’incontenibile passione, ereditata sì dalla famiglia, ma personalmente accresciuta e raffinata negli anni attraverso studi, letture, viaggi ed incontri di vario genere: una passione che non si limita alla pittura e alla scultura, ma si estende con grande libertà e con sovrana competenza alla musica, alla poesia, all’architettura, alla fotografia, al cinema: insomma, a tutte le forme di arte fin ora esperite ed esperibili.
Nelle sue analisi, Paolo dà ovviamente per scontata l’affinità, anzi la sorellanza, fra le arti (le Muse erano tutte figlie di Mnemosyne, la dea greca della memoria) e fin dal titolo – Il canto della luce – si muove all’insegna della sinestesia. Dalla metafora, poi, sconfina sùbito nell’ossimoro, persuaso della fondamentale coincidentia oppositorum e della necessità di innescare di continuo slittamenti poetici e finanche veri e propri cortocircuiti del linguaggio al fine di spiegare come l’arte per lui, sulla scia di Heidegger, si configuri quale «porsi-in-opera della verità» ovvero quale “istituzione” e “ri-velazione” della verità (a-lētheia in greco), in quanto l’Essere, nell’atto stesso di “dis-velarsi” in un ente, si richiude in se stesso, nel senso che il suo auto-manifestarsi non è mai totale. L’illuminarsi della verità comporta insomma un suo cooriginario nascondersi.
L’arte non è una semplice imitazione o una riproduzione della realtà e, benché da essa tragga spunto o ispirazione, benché – com’è stato giustamente notato – si commisuri ancor più con la tradizione, mutuandone schemi e stilemi, forme e norme, sa sempre rinnovarsi. La vera arte è sempre originale, come attesta il rovesciamento di un celebre motto dell’Ecclesiaste operato da Jorge Luis Borges: «Niente di antico sotto il sole». È lo stesso Paolo a ricordarlo, corroborando il concetto con una puntuale citazione proustiana: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi». Per questo non condividiamo l’idea, peraltro incidentalmente enunciata, della fine della pittura. Potranno cambiare o moltiplicarsi le tecniche e gli strumenti del fare arte, ma è da escludere che questo implichi un progresso estetico e il definitivo accantonamento di spatole e pennelli.
Anzi, connesso all’espandersi della tecnica, vediamo profilarsi un duplice rischio: che da un lato lo spettacolo e la spettacolarizzazione oggi imperanti, con sfoggio di gratuite provocazioni e di performances intese più a gratificare il narcisismo degli autori che a produrre qualcosa di valido e di durevole, vadano a detrimento della cultura autentica; e che, dall’altro, sull’onda delle mode, il post-umano e il trans-umano prendano il sopravvento sull’umanesimo. Questo sì che segnerebbe la “morte dell’arte” (non solo della pittura) presagita da Hegel.
D’altra parte, in più di un’occasione Paolo sembra a sua volta denunciare, alla stregua di Guy Debord, la pervasività dei mass media e il predominio delle immagini mediatiche sulla realtà, con la conseguenza che ormai l’apparire conta più dell’essere. Siamo così di fronte a una carnevalesca dissipazione, a un tragicomico “esibizionismo isterico”, a uno scialo di immagini che non lasciano traccia. Mentre in passato la cultura era una specie di coscienza che impediva di ignorare la realtà, oggi la banalizzazione dell’arte e della letteratura, il successo del giornalismo scandalistico, l’appiattimento dei gusti e delle gerarchie, “il divismo, i miti della modernità”, “il feticismo” e “il culto dell’io”, il consumismo sfrenato e il trionfo dell’effimero, ne hanno fatto un meccanismo di intrattenimento, persino di distrazione.
Come ha dimostrato Mario Vargas Llosa ne La civilización del espectáculo, la ricerca del piacere e dell’intrattenimento ha irrimediabilmente contaminato anche il mondo dell’arte, sempre più appannaggio di istrioni e di mercanti senza scrupoli, dove trovate e trouvailles di pessimo gusto, novità fini a se stesse e sterili elucubrazioni teoriche imperversano senza rimedio. Prendiamo ad esempio la produzione estetica col computer, che ha ridotto l’arte a un sistema di regole combinatorie, e l’artista a programmatore che manipola apparecchi in applicazioni di teorie prefissate. L’arte finisce per non esprimere piú alcun senso e gli artisti – a dire di Jacques Ellul – altro non sono che «furieri del sistema tecnico». Col risultato che anche qui si afferma la legge di Gresham: «la moneta cattiva scaccia quella buona».
Per fortuna Paolo parte da lontano: nientemeno che dall’antico Egitto e dall’influenza dell’arte faraonica su quella greca. E di qui passa all’Italia, alle immagini di San Francesco, ancora segnate da una “ferma verticalità […] di matrice bizantina”, ai capolavori di Antonello da Messina, in cui la ieratica religiosità medievale si umanizza, e poi via via alle “liturgie di smalto” dei della Robbia, a Mantegna e Giovanni Bellini, a Dürer, Raffaello, Vermeer, ai vedutisti veneti… Si tratta in genere di scritti di taglio giornalistico, spesso occasionali, sintetici ma precisi nel mettere a fuoco i tratti o i caratteri essenziali di questa o quell’opera, di questo o quell’autore.
Poi, però, le dimensioni degli interventi si ampliano fino ad acquistare la misura del saggio: così per Füssli, così soprattutto per l’amatissimo Turner, per l’ingiustamente trascurato Millet, qui per contro apprezzato nel suo schietto “ritorno alla natura”, al mondo dei contadini colto e rappresentato nella sua “corale ed epica semplicità”, nella sua sacralità fatta di sacrificio e di fatica, ma anche rivalutato, nel suo scabro e severo realismo, per le innovazioni che preludono da un lato al divisionismo, dall’altro all’impressionismo.
Esemplare poi il saggio dedicato a Claude Monet: non per nulla ha lo stesso titolo del libro. Tutta la sua opera è protesa a “fissare l’istante, l’attimo che fugge e trascorre”, in un assiduo corpo a corpo col miracolo della luce. La sua è “una pittura che va oltre la pittura”. Del pari approfondita è l’analisi della tormentata personalità e dell’opera per molti aspetti rivoluzionaria di Edvard Munch, che indaga la malattia persuaso di trovare nell’arte una “terapia salvifica” o, se non altro, un mezzo per scandagliare il mistero doloroso della vita e della morte. In forme espressionistiche. Come farà anche Egon Schiele, non meno ossessionato da un erotismo emaciato, senza purezza, irrimediabilmente insidiato dal male e dalla morte.
Seguono saggi e articoli che trattano di autori a noi più vicini nel tempo, versatili e sperimentali come pochi, che cercano di aprire nuove strade e nuove prospettive all’arte, con un lavoro senz’altro serio, ma, con l’eccezione di Carlo Scarpa e di Nicolas de Staēl, a volte un po’ troppo cerebrali e ardimentosi nel tentativo di “uscire dalla staticità dell’arte tradizionale” e di “dar vita alla materia”. Non faremo nomi, se non quello di Giulio Paolini, di cui ammiriamo per un verso i funambolismi concettuali, ma non condividiamo per l’altro la riduzione dell’arte a precipua teoria, a “pura organizzazione mentale”. E soprattutto la svalutazione dell’oggetto o, se vogliamo, dei contenuti: una posizione, questa, che lo accomuna peraltro ad altri grandi autori.
Lasciamo poi perdere amenità modaiole come la Land Art. Alle complicazioni intellettuali e alle ambiziose installazioni, vere e proprie montagne che partoriscono topolini, preferiamo di gran lunga la «severa elegia luminosa» (Longhi) di Giorgio Morandi, il suo artigianale buon senso, restìo perfino a «definire una poetica»: per lui «non vi è nulla di astratto» ed è anzi convinto «che non vi sia nulla di più surreale, nulla di più astratto del reale». Quanto a Nicolas de Staēl, che ci sembra un artista di ben altra caratura, avremo presto modo di parlarne più diffusamente. Il saggio che Paolo gli dedica ci offre per ora un quadro dell’uomo e dell’opera adeguato e convincente. E nulla ci sentiamo di aggiungere.