Una gioventù fragile e malaticcia? O semplicemente menefreghista? I datori di lavoro si lamentano per lo scarso attaccamento aziendale dei giovani dipendenti che ricorrono spesso ai giorni di malattia per non presentarsi in fabbrica, in ufficio, in bottega od in negozio. Eppure loro, i padroni, con tanta generosità hanno concesso il privilegio di poter lavorare. In cambio di pochi soldi, certo, ma ciò che conta non è la retribuzione bensì la possibilità di avere un’attività da svolgere.
E poi questi giovani non si affezionano al loro donatore di stipendio ridotto, non gli baciano la mano al mattino, non si genuflettono al suo passaggio. Ed osano persino licenziarsi quando trovano un’occupazione meglio retribuita. Ingrati!
A lamentarsi sono gli stessi imprenditori che esaltavano la precarietà, il continuo cambiamento di lavori e di aziende. Abbiamo imposto il precariato – giuravano mentendo – per andare incontro alla nuova mentalità dei ragazzi che sono sempre alla ricerca di nuove esperienze. E questo giustificava i contratti a tempo determinato, per pochi mesi o anche per poche settimane. Però se il precario se ne va, allora ci si indigna. Ma come, con quel che ci è costato insegnargli a lavare i piatti, ci abbandona per fare il magazziniere e guadagnare duecento euro in più? Cos’è questa sciocchezza di voler fare nuove esperienze e di guadagnare di più?
Anche aziende dal nome prestigioso, ma dai contratti identici a quelli delle imprese meno note, sono alle prese con scarso impegno, disinteresse, giorni di mutua come se piovesse. I giovani non vogliono fare sacrifici! Il mantra è ripetuto senza soluzione di continuità. E mentre il padrone si lamenta, lo schiavo si ribella e se ne va. Fare sacrifici in azienda per potersi permettere una stanza in affitto in condivisione con altri sfruttati? Anche no, grazie. Mentre padroni e manager ostentano la nuova vettura di lusso per raggiungere ville da sogno? Anche no, grazie.
E l’impegno? La qualità del lavoro? Tutto finito con la fine dell’azienda mamma che ti accompagnava dal giorno dell’assunzione sino a quello della pensione. Sono stati gli imprenditori ad imporre il cambiamento. Ma ora non sanno come fronteggiare le conseguenze.