Nel vivace contesto latinoamericano il caso del Perù sembra non avere eguali. Con tutti i presidenti eletti dal ritorno alla democrazia, dopo la fine della dittatura di Alberto Fujimori, rientrati nelle mire dell’inchiesta Odebrecht e la difficile eredità dell’attuale mandato alla massima carica istituzionale tramandata da Pedro Pablo Kuczynski al suo ex vice Martín Vizcarra si è venuta a creare una crisi senza precedenti.
La maggioranza dell’unica Camera del Paese ha lungamente ostacolato i progetti di riforma del presidente e nemmeno le nuove elezioni legislative che hanno in buona parte sovvertito i rapporti di forza, in un primo momento favorevoli alla destra capeggiata dai figli di Fujimori, sono riusciti a rafforzare una presidenza debole in seno al Congresso.
L’approvazione della procedura di impeachment nei confronti di Vizcarra ha seguito velocemente l’iter legislativo portando alla rimozione del capo di Stato in meno di sessanta giorni motivata dall’incapacità morale che avrebbe colpito il cinquantasettenne in relazione ad uno scandalo e presunto caso di corruzione, mai certificato, del 2014.
Il carisma di Vizcarra e la fiducia accordatagli da una buona fetta della popolazione della nazione andina ha fatto sì che tantissimi cittadini si riversassero in strada e nelle piazze per protestare contro il giuramento di Manuel Merino, presidente del Congresso e per questo – secondo la Costituzione peruviana – deputato ad essere investito del mandato fino alla sua scadenza naturale.
Merino ha, però, dovuto fare i conti con la rabbia popolare che lo ha costretto ad immediate dimissioni nonostante l’appoggio del suo partito Acción Popular (Azione Popolare, Ap) attualmente forza di maggioranza seppur relativa con 25 seggi.
Le nuove elezioni presidenziali sono previste per la tarda primavera del 2021 ma la luce in fondo al tunnel della crisi politica nella nazione sudamericana appare ancora più distante.
In Perù crisi politica senza fine
