Un mercato mondiale da 14 miliardi di dollari e che in Italia vale oltre 240 milioni di euro. È la realtà finanziaria ed economica del mondo degli influencer, raccontata in un recente libro di Luca Poma, Giorgia Grandoni e Luca “Yuri” Toselli: “Influencer. Come nascono i miti del web”, pubblicato da Lupetti (212 pagine per 22,90 euro). Un volume sicuramente utile, non solo ai tanti (troppi) giovani che vogliono dedicarsi a questa attività con la speranza di raggiungere i guadagni dei personaggi più noti, a partire dai Ferragnez, ma anche e soprattutto all’infinità di aziende italiane che sono ancora ferme alla réclame degli esordi di Carosello.
Gli autori analizzano i comportamenti degli influencer, le strategie vincenti e gli errori, le potenzialità ed i limiti dei vari social. Tentano di spiegare – impresa ardua – ai responsabili marketing delle aziende le diverse opportunità legate non solo ai personaggi più famosi, con milioni di follower, ma anche ai micro e nano influencer. Perché chi ha un numero limitato di seguaci riesce spesso a creare una comunità più coesa, più attenta alle indicazioni di quello o quella che si trasforma in una persona di famiglia, in un amico a cui chiedere consigli su acquisti, viaggi, comportamenti. Moda e motori, cibo e tecnologia. I grandi gruppi investono, le piccole imprese non capiscono. E gli autori spiegano anche i costi reali da affrontare.
Le parti più convincenti di “Influencer” sono proprio quelle più tecniche, con un doppio decalogo finale rivolto, appunto, rispettivamente alle aziende ed agli aspiranti influenzatori del popolo social. Con un consiglio che viene ripetuto, più e più volte, nelle pagine del libro: siate autentici e trasparenti.
Giustissimo. Ma proprio questo rende meno credibile la parte di “Influencer” dedicata ai messaggi sociali dei vari professionisti del settore ed anche di quelle grandi aziende che hanno puntato sugli influencer. Difficile, molto difficile, credere all’autenticità della passione sociale dei Ferragnez, “comunisti con Rolex” che pontificano dal loro attico milionario di City Life a Milano. Falsa, storicamente falsa, la presunta autenticità e spontaneità delle primavere arabe (o delle rivolte “colorate”). Ed è un peccato che il libro si occupi esclusivamente delle proteste eterodirette social che hanno portato alla cancel culture ed alla guerra contro l’intelligenza. Un inno all’insopportabile politicamente corretto.
Però si possono tranquillamente evitare queste scivolate per dedicarsi a tutti gli altri aspetti interessanti e ben spiegati. Come l’attenzione rivolta allo “slacktivismo”, ossia all’attivismo per fannulloni. Tutti quegli utenti, evidentemente non solo italiani, che si “appassionano” a cause sociali di cui a loro stessi non frega assolutamente nulla ma che sostengono per essere accettati dal branco politicamente corretto.
La politica, se fosse in grado di leggere, dovrebbe approfondire l’argomento. Invece di utilizzare i social per inutili selfie con panino, per qualche strillo di troppo, per annoiare con i soliti slogan autoreferenziali.