Vi sono dei giorni… strani. Che ti sorprendono, così, all’improvviso… e si insinuano in te, come un velo… direi di nebbia, di bruma, di foschia per lo meno. Anche se fuori è già primavera da oltre un mese. E la fioritura è ormai al suo culmine…
Però, il tempo è mutevole… variabile dicevano i vecchi meteorologi televisivi, quando erano colonnelli dell’aeronautica. E non veline.
D’altra parte, nella Primavera, si cela sempre qualcosa di febbrile. Una irrequietezza che, forse, è legata, per vie sottili, al germogliare della terra. A una sorta di attesa, di aspettativa per la gran copia di frutti multicolori e saporosi, che verranno colti sul farsi della prossima estate.

Ma ora sono solo germogli. E fiori, certo. Bellissimi, ma che una pioggia improvvisa, un vento ancora freddo, possono strappare al ramo… e spargere al suolo. Morti. E presto ridotti in poltiglia scivolosa e incolore dai passanti.
Shakespeare, come è noto e abusato, parla de “l’inverno del nostro scontento”… è il Riccardo III…. ma io colgo più lo scontento in questo scorcio di primavera. Nel gelo invernale vi è più stabilità. E la bellezza della brina e della galaverna. E il nostro mondo interiore si sente in qualche modo protetto. Rassicurato. Come stare accanto ad un bel fuoco, in una baita accogliente… mentre fuori fiocca.
A primavera ci si sente attratti dall’esterno. La superficie della terra, che inverdisce, ci suggestiona. Sembra chiamarci ad altra vita. Non stiamo più, per lo meno non così volentieri, al caldo nel rifugio. Ci sembra di avere bisogno di aria nuova. Di camminare sui prati. Vagando senza meta. A piedi nudi.

Come nella Primavera del Botticelli… ritorno sempre lì, lo so, ma è il mio canone di bellezza. E molto di più.
Guardate però lo sguardo di Flora mentre incede… Non vi sembra… velato? Malinconia, tristezza… non saprei dire. Ma nella leggerezza del passo, che appena sfiora il prato, mi sembra di intuire una qualche insicurezza. Il non conoscere la via. La perdita di un appiglio. Di un luogo sicuro. Un rifugio, appunto.
Vagando irrequieti ci possiamo perdere. E la tristezza di quegli occhi splendenti manifesta, per questo forse… dolore.
E allora mi viene in mente che aveva ragione T. S. Eliot . “Aprile è il mese più crudele”
La Terra Desolata. “Genera lillà dalla terra morta /mescola memoria e desiderio”.
E mi accorgo che aveva già detto tutto. Non a caso, questo è l’incipit de “La sepoltura dei morti”. Ed è il gioco ambiguo tra ciò che abbiamo, la memoria, e il desiderio. Che, però, facilmente muta in paura del futuro. E siamo in una situazione di… fragilità. Come fiori sul ramo, quando, improvviso, soffia un vento ancora gelido. Che può portarci via. Dandoci l’illusione del volo. Della libertà. E facendoci infine cadere in una pozzangera putrida.
Ma c’è il pésco in fiore. E i fiori di questo albero, per quanto possano apparire fragili, hanno una incredibile forza. Si abbarbicano al ramo. Resistono. E riescono a dare frutto.

Per questo è il simbolo del Giappone, scrive Ignazio Nitōbe, in “Bushido”. Il simbolo dei samurai, in particolare. Resistere. Con la calma. Anzi, mantenendo una quiete profonda. In apparenza immobile. Che è, però, l’autentica forza.