Con il Solstizio siamo entrati nell’inverno. Banale dirlo, cosa ovvia…. eppure l’atmosfera festiva, le luci di Natale, l’allegria, vera o forzata che sia, tendono a farcelo dimenticare. A farci scordare cosa sia l’inverno. E che è, ora, appena ai suoi esordì. I mesi duri devono ancora iniziare.
Certo, con il Solstizio il Sole riprende il suo corso ascendente. Comincia ad uscire dall’abisso di tenebra un cui è disceso fra l’estate e l’autunno. Per usare un linguaggio antico, lascia il Sentiero degli Uomini, e ricomincia il suo corso lungo il Sentiero degli Dei.
Per questo, presso tutte le culture e civiltà il Solstizio d’inverno veniva celebrato con Feste, fuochi, banchetti. Era la speranza. Che veniva accesa proprio prima del periodo più duro dell’anno. Periodo di gelo, soprattutto al nord. Di nebbie e neve. Che rendeva impossibile qualsiasi attività. Si poteva solo restare rintanati come plantigradi in letargo. Attendere. E sperare.
È un’immagine che evoca paure ancestrali. Qualcosa che, forse, ci portiamo dentro dal tempo di remoti avi cacciatori raccoglitori. Immagine probabilmente inesatta, perché gli scavi recenti in Turchia, nei Balcani e un po’ in tutta Europa, stanno dimostrando che il, cosiddetto, Paleolitico aveva una civiltà molto più complessa e raffinata di quello che continua a venire insegnato nelle nostre scuole. Quegli uomini non erano dei semi-bruti. Anzi, conoscevano forme diverse di espressione artistica. Una tradizione orale vivacissima, di cui, probabilmente, molte fiabe popolari serbano il nucleo essenziale. Come Cappuccetto Rosso. E praticavano riti religiosi tutt’altro che primitivi.
Proprio per questo il loro rinchiudersi durante i mesi invernali, non andrebbe visto solo come una forma di paura animale. Piuttosto, vi era la percezione, forse il sogno, che in questa lunga stagione fredda bisogna raccogliersi in se stessi. Cercare il calore non fuori, ma dentro di sé.
In una delle immaginazioni di Natale data da Rudolf Steiner, possiamo trovare il significato profondo di questo desiderio di raccogliersi in sé, di non uscire, di stare accanto al fuoco con i propri cari. Insomma, l’iconografia ordinaria, e dolciastra, del Natale, adombra ben altro.
La memoria, sorda e ottusa, di un rapporto armonico con la natura. Oggi sostanzialmente alienato.
Un rapporto di sistole/diastole. Da Primavera a Estate ci si proietta verso l’esterno. Si è totalmente presi da sensi e sensazioni.
Da Autunno a Inverno si torna in noi stessi. Ci si chiude si affinano altri sensi. Interiori. Si pensa.
L’inverno non è la negazione della vita. Anzi. Nel seno della Terra, i semi delle piante maturano. Tenuti paradossalmente caldi dal freddo esterno. Il vecchio detto contadino “sotto la neve pane, sotto la pioggia fame” adonbra questa saggezza. Se l’inverno non è freddo, il raccolto sarà povero.
Vale lo stesso per il nostro mondo interiore. Se pretendiamo di vivere come in estate, andiamo incontro ad un, progressivo, inaridimento delle emozioni. E a un ottundersi del pensiero. Per questo ho sempre detestato anche solo l’idea di vacanze invernali nei mari caldi. Con comportamenti festaioli propri dell’Estate. E che, per altro, mica mi piacciono anche nel periodo caldo…io l’inverno lo vorrei trascorrere a Nord. In Finlandia magari. Tra i lapponi. Dove dimora Santa Claus. O tra gli iperborei. Dove sverna Febo Apollo…
Comunque, è la stagione migliore. Per leggere, scrivere. Pensare. Ed anche per parlare. Un parlare calmo, con pochi amici autentici. O con chi si ama davvero. È anche una stagione in cui l’eros diventa più intenso. Profondo e appassionato. Al contrario di quel fast food del sesso estivo. E al berciare caotico e indistinto.

Insomma, io amo l’inverno. Che per me non è mai stagione di scontento. O inquietudine, alla faccia di Riccardo III.
Sarà perché in inverno sono nato. O sarà perché aveva, dopotutto, ragione quell’eccentrico scienziato che fu Lord Momboddo. Che prima di Darwin teorizzò l’evoluzione. Ma non dai primati. Dagli orsi … che mi sono molto più simpatici, in placido letargo. Nelle loro caverne.