Il rapporto tra cultura e lingua è un rapporto stretto, imprescindibile. Se possiedi le parole, possiedi le cose. Dunque, per combattere la cultura di un popolo bisogna innanzitutto negargli le parole. Le sue parole, nella sua lingua. Per poi introdurre parole di una lingua diversa, portatrici di una diversa cultura e di una differente visione del mondo. Un’operazione che deve forzatamente partire dalle piccole realtà.
Come quella valdostana dove l’assessore regionale Guichardaz ha programmato una Saison Culturelle (la stagione culturale) totalmente priva di iniziative e manifestazioni in patois, ossia nella lingua parlata dai valdostani. Guichardaz, oltre che responsabile della cultura, è anche assessore al turismo. E non ha avuto nulla da ridire sui folli rincari del biglietto giornaliero per sciare, portato a 60 euro in alcune località della Valle. Troppo impegnato, evidentemente, a cancellare ogni memoria della lingua e della cultura. Il prossimo passo, probabilmente, sarà tradurre la Saison Culturelle in Cultural Season, perché utilizzare il francese è un retaggio del colonialismo dell’uomo bianco. Non come l’inglese..
D’altronde Guichardaz non è certo solo in questa battaglia contro la cultura dei popoli, contro le tradizioni. Il ministro Cingolani è convinto che il linguaggio della scienza e della tecnica sia esclusivamente l’inglese. E, da ministro italiano di un governo atlantista, ignora la lingua italiana per poi stupirsi se anche le proposte intelligenti suscitano proteste poiché lui non è in grado di spiegarle in italiano.
I francesi utilizzano la loro lingua anche per definire gli oggetti tecnologici, a partire dall’ordinateur/computer. Ma Cingolani se ne frega. Paradossalmente Parigi potrebbe ritrovarsi con un presidente ebreo di origine algerina, ma sicuramente Zemmour – che resta, di fatto, il miglior alleato di Macron – è più attento alla cultura francese di quanto Cingolani tuteli quella italiana.
Forse uno psichiatra come Adriano Segatori potrebbe spiegare se questo odio delle classi dirigenti italiane, non solo politiche, per ogni forma di cultura nazionale e locale sia dovuto ad una sorta di invidia penis trasposta in ambito culturale. Incapaci di confrontarsi con letteratura, architettura, musica, teatro, pittura, scultura del passato, i ceti dirigenti cercano di cancellare la grandezza del passato per evitare di far emergere il nulla cosmico del presente.
Dunque cancelliamo Dante non perché è politicamente scorretto, ma perché ora il regime può offrire Murgia e Saviano. Abbattiamo l’Eur e le cattedrali perché ora c’è Fuffas. Vietiamo l’Otello di Verdi non perché sia un’opera razzista ma per non imbarazzare Sfera Ebbasta. Perché, in realtà, non vogliamo integrare i nuovi arrivati all’interno di una delle tante culture italiane ed europee, ma vogliamo assimilare gli italiani al modello indifferenziato. Tutti con pantaloni da idioti con il cavallo alle ginocchia, berrettino da baseball all’indietro ed un linguaggio ridotto a poche centinaia di parole elementari. D’altronde i concetti da esprimere sono anch’essi elementari.
Si può iniziare dalla piccola Valle d’Aosta. Cancellando lingua e memoria. Per poi proseguire valle dopo valle, territorio dopo territorio, lingua dopo lingua. Con il fattivo contributo di coloro che, per essere accettati dal regime, utilizzano le lingue locali per sostenere il politicamente corretto che è lo strumento principale per l’omologazione, per la cancellazione di ogni diversità, di ogni cultura locale. Sono loro, i politicamente corretti in lingua locale, i nemici più pericolosi per la sopravvivenza ed il rilancio di una vera cultura popolare legata ai territori.