Il viaggio apostolico di Papa Francesco in Iraq non merita di essere liquidato con un sarcastico stilema reazionario e, soprattutto, la complessa e dolorosa situazione irachena non può essere affrontata con giudizi sommari e sbrigativi. Alla fin fine, possiamo dire che è comunque meglio che Bergoglio abbia compiuto questa missione, anche se all’insegna di un pesante compromesso tra ecumenismo e difesa dei cristiani che, d’altra parte, ne è stato probabilmente il presupposto ineludibile, la conditio sine qua non.
Pur comprendendo le ragioni della realpolitik che ha guidato il Vaticano in quest’occasione, però, non abbiamo potuto guardare senza un fremito di profondo disagio l’immagine in cui Francesco appare, sorridente e senza mascherina, al fianco di una fila di militi con la scimitarra sguainata.

La simbologia dell’omaggio militare e i protocolli statuali potranno pure motivare questo paradossale onore delle armi, ma – sicuramente per condizionamento occidentalista – vedere un apostolo di pace che passa accanto a quelle lame fa un effetto ancor più stridente di quando è schierato il solito picchetto. Nell’uso dell’arma bianca c’è un quid di retrocessione alla barbarie primitiva. In quelle spade è impossibile non cogliere un forse involontario richiamo alle decapitazioni eseguite e pubblicizzate dall’Isis. Non sono solo gli integralisti islamici a uccidere i prigionieri, certo, eppure ammazzarli a colpi di mannaia appare più crudele ancora che finirli con un colpo d’arma da fuoco. Anche la ferocia dei narcos latino-americani, del resto, è iconizzata dalle amputazioni cui sottoponevano i malcapitati finiti nelle loro grinfie quasi più che dagli assassinii dei quali si sono resi responsabili.
Tornando all’Iraq, un’altra riflessione che credo sorga spontanea è quella sulla dabbenaggine con cui l’“occidente”, guidato dagli Usa, ha destabilizzato in tempi e modi diversi – a partire dallo scorso dopoguerra, combinando guerre sante più o meno pulite con il dilagare del politically correct, insomma con una contraddittoria mescolanza di soft e hard power – tutte le aree planetarie in cui la cristianità era difesa mediante un regime autoritario ma laicamente interreligioso.

Tutte o quasi: Iran, Iraq, Afghanistan, Pakistan, Balcani, Egitto, Libia, Turchia… Tenersi i militari ad Ankara, lo Scià a Teheran, Saddam a Baghdad, Gheddafi a Tripoli non era meglio, ma era meno peggio. Perché ora in quelle terre i cristiani sono perseguitati, uccisi, espatriati, sono comunque meno liberi o più oppressi di prima, e perché questo peggioramento delle loro condizioni è la cartina di tornasole di un deterioramento complessivo. L’illusione dell’autogoverno, l’esportazione indiscriminata della democrazia hanno dato il “la” a una regressione nel totalitarismo confessionale e/o nella guerra civile.
La miopia con cui abbiamo guardato al Medio Oriente, al Maghreb, all’Africa, all’Asia, all’Est europeo, si abbina alla presbiopia con cui in casa nostra abbiamo smesso di considerare la cristianità il fulcro di quella che chiamavamo “civiltà”. Non è un dato confessionale, per lo meno non prevalentemente e non più da alcuni secoli: è un dato politico, culturale. “Civile” , appunto.
Con la cristianità vengono contemperati i divari economici, assistiti minimalmente i bisognosi, mediati gli interessi privati e pubblici, esaltata la bellezza, tutelati valori come il silenzio o il riserbo. La cristianità non è una panacea, sotto il suo cappello si sono commessi infiniti errori e orrori, ma è un enzima del bello e del buono che non avremmo dovuto dismettere con tanta suicida superficialità.

Qualche giorno fa don Livio, il padre di Radio Maria, affermava che la Madonna non ha annunciato la pandemia ma la scristianizzazione. Uno dei pochi punti sui quali mi trovo d’accordo con Francesco è la distanza da questa visione mariana del citofono che rilascia dichiarazioni pret-à-porter. Ed è un peccato che la difesa della cristianità sia affidata ai profeti di una simile religiosità. Ma la colpa non è certo loro, è nostra.