Un sistema-Paese avvitato su se stesso, sospeso in uno iato storico di tre decadi. Una storia fatta di riforme incompiute e di rivoluzioni interrotte, tra la profonda incertezza del presente e la seria preoccupazione per il futuro.
Oggigiorno, le sfide lanciate agli Stati dalla “globalizzazione” e da quella che, ormai, tanti chiamano addirittura “post-globalizzazione” sono molteplici. Non ultima la pandemia di Covid-19, sicuramente, come anche l’esacerbazione della competizione geopolitica globale già preesistente, senza tuttavia scordarsi delle numerose e dure prove di adeguamento nazionale alle mutazioni sistemiche internazionali nelle scorse tre decadi: fine della Guerra Fredda, fase unipolare, graduale e lenta emersione della multipolarità.

I punti di scontro tante volte superano l’immagine classica del campo di battaglia e toccano sfere attinenti all’economia, allo spazio, al cyberspazio e all’innovazione, digitale e tecnologica. Lo Stato, preso per astrazione, è costantemente messo alla prova da questi processi, spesso caotici e drastici, e alla fine di essi si misura con un risultato oggettivo di rafforzamento, indebolimento o addirittura fallimento, che ne sancisce l’efficienza e la legittimità, due concetti profondamenti connessi nell’era della Tecnica.
Parlando dell’Italia, o come sarebbe più consono della “questione italiana”, la prima immagine che balza in mente è quella d’un Paese in crisi perenne o forse irreversibile, condannato all’immobilismo e all’instabilità continua, sempre ad un passo dalla conflagrazione, sospeso tra culto del passato e alienazione dal dinamismo del presente-futuro. Impressioni sicuramente non fallaci e irrealistiche, come potrebbe dirsi altrimenti? Le paludi del sistema politico e produttivo italiano sono riassunte da indicatori economici da molto tempo non confortanti e, come detto, dal risultato mediocre, a tratti insufficiente in termini di efficienza-legittimità alla prova dei cambiamenti internazionali sopra descritti.

Tuttavia, parlare di atavica mancanza di volontà e visione nella nostra classe dirigente è scorretto, soprattutto se giudicata alla luce della storia politica italiana degli scorsi trent’anni quando tutto, già dagli anni 80 ma simbolicamente dal 1989-1991, cominciò irreversibilmente a cambiare. Tentativi di riforma costituzionale e, dunque, di revisione delle nostre istituzioni ve ne sono stati eccome, di numerosi e ambiziosi, nonostante la difformità nelle idee e negli obiettivi che li hanno caratterizzati, spesso da ascrivere alla matrice ideologica originaria e al giudizio analitico su quale soluzione pareva essere più adatta ai cambiamenti in atto, seppur il comune obiettivo, da qualsiasi schieramento partitico, di “rafforzamento istituzionale”.
Un’eterogeneità, per l’appunto, in aperta contraddizione col risultato finale, ossia di fallimento, dei percorsi riformisti avviati, che gradualmente ha portato lo Stato Italiano a non reggere l’urto della Storia e delle Crisi, finanche a spingersi, pericolosamente, verso il precipizio, la strada dell’implosione. Si tratta ora di richiamare alla memoria e all’analisi tutti questi tentativi, mettendoli a confronto nel loro contesto storico, cercando infine di aprire una finestra non solo sul presente ma anche, cosa più importante, sul futuro della nazione italiana.
PRIMA REPUBBLICA E ISTINTO DI SOPRAVVIVENZA:
La Repubblica Italiana nasce nel 1946 e prende forma definitivamente, dopo i lavori della Costituente, nel 1948, quando entra in vigore la Carta Costituzionale. Sin dagli albori, i Padri Costituenti vollero dare un assetto consensuale-proporzionalistico alla Repubblica nata dalle ceneri della Resistenza e dalla sconfitta della Monarchia nel referendum del 1946, al fine di dare equa rappresentanza a tutte le anime e culture politiche presenti nella società italiana.
Pertanto, fulcro del sistema istituzionale e decisionale della Repubblica non poté che essere il Parlamento bicamerale e paritario, detentore della potestà legislativa ed eletto chiaramente secondo criteri puramente proporzionali, assieme al Consiglio dei ministri, organo istituzionale di pares dotato di potere esecutivo. Un primo tentativo, seppur vano alla fine, di contraddizione del dogma proporzionalista fu quello fatto da Alcide De Gasperi con la legge 1953 (cosiddetta “Legge Truffa”), che mirava a introdurre un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi alla camera al partito o al gruppo di liste collegate che avessero superato il 50% dei consensi.

Tentativo, come detto, stroncato sul nascere dall’opposizione di massa della sinistra PSI-PCI. Il presidente del consiglio italiano aveva la semplice intenzione di blindare la coalizione col PRI-PLI-PSDI, senza dover cercare sostegno presso i monarchici o addirittura i missini, cercando di coltivare, contemporaneamente, il sogno del partito di massa quale era quello esemplare dell’omonimo tedesco Adenauer, la CDU.
Gli anni del boom economico, di lì a breve, sommati alla trasformazione sincronica della società occidentale, modellata dal benessere economico e caratterizzata dal cambiamento epocale dei costumi sociali (affluent society), avrebbero già posto problemi di natura politica, in termini di stabilità parlamentare e d’espressione di maggioranze governative coese e durature. Ciononostante questa “stabile instabilità”, tratto tipico del parlamentarismo italiano, nelle successive due decadi seppe trovare soprattutto nel successo economico nazionale la sua chiara fonte di legittimazione, anche sotto l’impatto centrifugo della crisi petrolifera del 1973, lo stragismo politico e la riformulazione dei patti politici per il governo (centro sinistra organico, 1963-1976; compromesso storico, 1976-1978; pentapartito, 1981-1991).
A partire dagli anni ’80 si ricominciò a parlare di riforma costituzionale, con la prima commissione bicamerale guidata da Aldo Bozzi nel 1983, che in principio prevedeva la revisione di ben 44 articoli. Essa fallì poiché sprovvista di poteri referenti nei confronti dell’assemblea: tutte le proposte di ddl, dunque, non ebbero mai un seguito parlamentare.

Un secondo tentativo si registrò nel 1992, sotto la spinta propulsiva del movimento referendario di Mariotto Segni, uscito vittorioso nelle consultazioni referendarie del 1991 e del 1993, che videro rispettivamente il sistema elettorale per la Camera passare da essere plurinominale a uninominale e per il Senato da essere ipso-facto proporzionale a misto-maggioritario. Si trattava della Commissione presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti. Erano anni di grandi trasformazioni, internazionali e nazionali: il sistema partitico italiano, plasmato secondo gli schemi di contrapposizione tipici della Guerra Fredda, era il riflesso degli equilibri internazionali, giocoforza eventi (geo)politici come l’avanzamento del processo europeo di unificazione comunitaria e l’implosione del Muro di Berlino esercitarono una pressione irresistibile sugli equilibri politici interni, specialmente se sommati alle nuove linee di frattura sociale, che trovarono espressione nell’emersione di movimenti e partiti inediti (vedi il fenomeno delle Leghe al Nord), e allo scoppio di Mani Pulite-Tangentopoli.
Il tentativo di tale commissione era riformare la forma di governo parlamentare italiana, introducendo alcuni elementi di prassi razionalizzata nel “law-making process” e altri di presidenzializzazione della figura del primo ministro. Tuttavia, anche questa commissione fallì nei suoi intenti, causa fine anticipata della legislatura nel 1994.
SECONDA REPUBBLICA E RICERCA DI NUOVE IDENTITÀ:
Il sogno di riforma costituzionale e istituzionale, anche dopo il crollo della Prima Repubblica, non s’infranse. Infatti, di seguito, con l’ascesa di Silvio Berlusconi e la bipolarizzazione del sistema partitico italiano, compiutasi anche grazie alla riorganizzazione delle sinistre nel progetto de L’Ulivo, si istituì un’ulteriore commissione bicamerale, la cosiddetta “bicamerale D’Alema”.
Come premesso all’inizio, l’intento di ambo gli schieramenti, in fin dei conti, era comune: il rafforzamento del potere esecutivo. La causa era da ricercare anche, se non soprattutto, nell’influenza politica esercitata dagli organismi comunitari europei, che premevano per la responsabilizzazione dei Governi e l’aumento della loro potestà anche in campo legislativo, al fine di velocizzare le riforme necessarie per razionalizzare il più possibile le prassi parlamentari ed europeizzare le legislazioni nazionali facilitando così il processo di unificazione continentale.

Non è un caso, infatti, se da un lato il centro-sinistra spingeva, in base al modello di riferimento britannico e blairiano, per l’idea maggioritaria di esecutivo, ossia l’emersione della figura del primo ministro anche in chiave elettorale; mentre il centro-destra, dall’altro, inseguiva il prototipo presidenziale o anche semi-presidenziale.
Sfortunatamente, però, anche questo tentativo finì con un nulla di fatto, a causa di discordie politiche insanabili e dei veti incrociati lanciati da uno schieramento contro l’altro. Perciò la stagione riformistica delle commissioni bilaterali terminò, di fatto, nel 1997, se si escludono le numerose altre proposte, perlomeno programmatiche, avanzate negli anni seguenti dai medesimi leader politici, che non hanno registrato alcun seguito.
Allo stesso modo, pur non essendo scalfito per il momento l’impianto paritario del nostro sistema bicamerale, la richiesta di una riforma nazionale in ottica federale fu sempre e vieppiù presente: il professor Gianfranco Miglio, ad esempio, uno dei primi ideologi della Lega Nord, teorizzava un sistema confederale per l’Italia in base ad una suddivisione del territorio in 3 cantoni. In quegli anni, infatti, la Lega di Umberto Bossi raggiungeva l’apice dei suoi consensi e innegabilmente orientava, grazie al proprio peso elettorale decisivo, il dibattito politico e, dunque, di riforma costituzionale-istituzionale.

Il fallimento di tutti questi tentativi registrati negli anni 90, a cavallo tra la Prima e la Seconda Repubblica, cominciò a sentirsi specialmente all’inizio del nuovo millennio: l’attentato alle Torri Gemelle nel 2001 e tutte le turbolenze internazionali connesse, non a caso, cominciarono ad avere degli effetti decisivi sull’opinione pubblica occidentale che, conseguentemente, faceva sempre più richiesta di sicurezza e stabilità, con tutte le ripercussioni politiche che si possono supporre.
INADEGUATEZZA E PREZZO DA PAGARE OGGI
In questi ultimi anni, il peso dell’inadeguatezza del sistema istituzionale e politico italiano alle sfide internazionali s’è fatto sentire con tono anche maggiore. Omettendo la stagione della “Global War On Terror” e dell’estremismo islamico, la crisi finanziaria del 2008 e, soprattutto, quella del debito sovrano del 2011 hanno mostrato palesemente l’incapacità del nostro sistema-Paese di far fronte efficientemente e con efficacia agli urti e agli strappi nell’ordine internazionale. Nella fattispecie, si registrano tanto l’assenza di un’idea forte di Esecutivo quanto l’assenza di un raccordo proprio e saldo con il Legislativo, che è all’origine della stabilità democratica e della certezza nel law making-process. Com’è possibile affrontare problemi irrisolti e crisi inedite senza avere un asse saldo tra i due poteri?
Inoltre, la mancanza di una legge elettorale che sancisca definitivamente vincitori e vinti nelle nostre elezioni legislative è determinante, specie nell’inequivocabile definizione politica del binomio maggioranza-opposizione in Parlamento e, dunque, di Esecutivi di legislatura con programmi politici e di riforma noti agli elettori e da questi ultimi legittimati, come anche nella strutturazione di un sistema partitico consono all’impianto istituzionale.

Ancora oggi chiedersi: assetto proporzionale o maggioritario? Quale ruolo per il Governo?
Sicuramente urgerebbe riformare, allo stesso modo, la suddivisione amministrativa e risanare il conflitto Stato-Regioni, spesso aspro e chiuso in un vicolo cieco, come dimostrato ultimamente dalle numerose diatribe e controversie Governo-Regioni in seguito allo scoppio della pandemia Covid-19 e alla proclamazione dello stato di emergenza, cercando anche di meditare soluzioni capaci di superare il sistema regionalista, ormai consunto, e di portare su di un piano di dialogo costruttivo e di collaborazione Roma e le particolarità.
Pertanto: riforma federale complessiva o semplice superamento del regionalismo?
L’Italia è ad un bivio, che è una crisi di identità al contempo: trascendendo il discorso sulla sovranità e sull’appartenenza all’Unione Europea, ad oggi non c’è, di fatto, un’idea chiara sul come essere Stato-Nazione.
E, fino a prova contraria, essendo questa la prima dimensione, nazionale e politica, in cui ci si concepisce e da cui si parte, le ripercussioni, chiaramente negative, non possono che essere ampie e deleterie, sia secondo lo stesso interesse nazionale sia europeo e comunitario, che è specchio del nostro “essere nel mondo”.