Tra sabato 10 e domenica 11 aprile a Rivarolo Canavese, alle porte di Torino, si consuma una tragedia per mano di un vero e proprio killer. Renzo Tarabella, pensionato di 83 anni, uccide 4 persone e si spara di fronte alle forze dell’ordine.
I carabinieri troveranno nell’alloggio al quinto piano della palazzina di corso Italia i corpi senza vita della moglie, del figlio disabile e dei vicini di casa. A dare l’allarme la figlia dei coniugi Dighera, Francesca, preoccupata per i genitori.

Attualmente gli investigatori si interrogano sulla vicenda dell’assassino di Rivarolo: raptus momentaneo o piano diabolico premeditato?
Il ritrovamento dei cadaveri
Sono le 3.15 del mattino. A seguito di una segnalazione da parte della figlia dei coniugi Dighera, assenti da casa da troppe ore, i carabinieri della Compagnia di Ivrea cercano di fare irruzione nell’alloggio al civico 46, con l’aiuto dei Vigili del Fuoco.
Durante le manovre, il pensionato si spara in bocca, riservandosi l’ultimo proiettile. Una volta dentro, le forze dell’ordine scoprono l’inferno: quella stessa pistola, regolarmente detenuta, ha tolto la vita a 4 persone con soli 5 colpi.
La veglia ai corpi delle vittime e la mattanza

Nell’abitazione in cui si sarebbe consumata la strage gli inquirenti hanno trovato il corpo senza vita della moglie, Maria Grazia Valovatto, in pigiama nel letto coniugale; mentre il figlio, Wilson, sdraiato sul pavimento con attorno i suoi giocattoli preferiti.
Dopo aver vegliato, dalla mattina di sabato, sui corpi dei famigliari, Tarabella avrebbe atteso il momento propizio per attirare in casa i coniugi Dighera, il suo vero obiettivo. L’omicida avrebbe poi esploso nella sera due colpi di pistola contro Osvaldo e Liliana, freddandoli.
Stando alle prime ricostruzioni e all’esame autoptico, il pluriomicida avrebbe quindi trascorso un giorno intero in compagnia dei cadaveri dei congiunti e dei Dighera.
La confessione del killer di Rivarolo e il movente della gelosia
Nonostante una prima smentita della figlia di Renzo, il motivo principale della mattanza risiederebbe nella gelosia. Una gelosia covata da tempo nei confronti della famiglia Dighera, occupatasi da sempre con molta premura di Wilson, accudendolo come un figlio. Una volta diventati nonni, nella testa del killer, avrebbero smesso di badare a Wilson per dedicarsi unicamente alla nipotina. Un pensiero che lo avrebbe logorato nel tempo, portandolo a compiere l’atto estremo.
Diverse sarebbero state le lettere e i biglietti, ritrovati durante l’ispezione dei carabinieri del Sis, che incastrano il Tarabella. “I due signori avrebbero insultato mio figlio già morto. È giusto che paghino” e altri scritti deliranti avrebbero subito indirizzato le indagini verso la pista dell’odio.
Così il pluriomicida si sarebbe preoccupato per il futuro del figlio disabile, oramai arrivato all’età di 51 anni. Questo sarebbe stato il movente, confermato dallo stesso Tarabella il 23 aprile durante l’interrogatorio di garanzia al pm Lea Lamonaca:
“Ero solo, abbandonato, con una moglie malata e un figlio disabile da accudire. Ho ucciso perché mi hanno lasciato solo”
Molti restano ancora i dettagli da chiarire sulla vicenda, a partire dal porto d’armi di Tarabella. Secondo il Quotidiano del Canavese “dal 2016 l’uomo non aveva più presentato nessuna richiesta di rinnovo né un certificato di idoneità psico-fisica rilasciato dalla medicina legale dell’Asl per attestare che fosse in condizione di detenere un’arma“. Nel frattempo i legali della famiglia Dighera si interrogano sulla possibilità che questa carneficina potesse essere in qualche modo evitata.