È trascorso quasi un decennio dalla truffa Madoff e dal crac Lehman. Dieci lunghi anni, in cui la Banca Centrale Europea ha iniettato liquidità sul mercato comprando titoli di stato attraverso il cosiddetto “Quantitative Easing“.
È notizia di qualche giorno fa che il vento sta cambiando – diciamo una brezza – e lo strumento, attraverso il quale probabilmente l’Eurozona è stata messa in salvo, sta giungendo al termine.
Secondo l’annuncio di Draghi, infatti, il programma di acquisto delle obbligazioni da parte della BCE terminerà a gennaio, con una riduzione graduale da 30 a 15 miliardi al mese tra ottobre e dicembre.
La BCE smetterà quindi di immettere nuova moneta ma continuerà a reinvestire quanto incassato dai titoli acquistati giunti a scadenza “per tutto il tempo necessario per mantenere condizioni di liquidità favorevoli e un ampio grado di accomodamento monetario”.
Tale misura, comunque “condizionata” dai dati dei prossimi mesi, giunge in un momento nel quale l’economia dell’area Euro dà segnali di rallentamento a causa della maggiore incertezza della situazione politica e del contesto internazionale: nel primo trimestre 2018 il PIL è cresciuto ma meno delle aspettative, dello 0,4% rispetto allo 0,7% del trimestre precedente e le vendite al dettaglio hanno registrato una crescita dello 0,1% rispetto allo 0,4% del trimestre precedente.
Tale decisione riflette una visione da parte della BCE di una attenuazione della incertezza legata alla dinamica inflazionistica a discapito di un aumento dei dubbi relativi ad una naturale ripresa economica.
Conseguentemente, le stime riguardo all’aumento dell’inflazione sono state abbassate, mentre quelle sulla crescita del livello dei prezzi sono aumentate dall’1,3% all’1,7% (mentre per il 2018 e 2019 sono rimaste invariate a 1,7%). Ragion per cui, Draghi ha più volte ribadito l’opzionalità di tale programma, confermando che i tassi “rimarranno invariati almeno fino a giugno 2019” e la riduzione del QE è “soggetta ai dati economici che saranno prodotti nei prossimi mesi”.
I mercati finanziari hanno così festeggiato le scelte di Draghi, rassicurando gli investitori e dando respiro ancora per 15 mesi a tutte le asset class dell’area Euro, che avevano iniziato a risentire del graduale deterioramento e dell’incertezza politica, di fatto confermando ancora una politica monetaria accomodante ed un sostegno all’economia – ahinoi ancora necessari.
Infatti le tempistiche scelte dimostrano che Francoforte ha ben chiaro che la dinamica di convergenza dell’inflazione verso i target non abbia vita propria ma sia ancora sostenuta in gran parte dalle misure di politica monetaria.
L’Euro, che probabilmente resterà nel medio periodo non lontano dalle valutazioni attuali, potrebbe favorire chi ha optato per strategie diversificate globalmente. Viceversa, nessuno, tantomeno i mercati finanziari, apprezza uno scenario con un’inflazione in forte rialzo e una crescita economica bassa, e questa tendenza suona come un seppur flebile campanello d’allarme per tutti gli investitori.
Fin qui, tutto bene allora. O forse no? La domanda che sorge spontanea è: tutta questa cautela della BCE non mette in dubbio – nonostante i dieci anni trascorsi con iniezioni di liquidità, sì a sostegno della economia ma anche dopando i mercati – una effettiva ripresa dell’economia reale dell’area Euro?
A partire da ottobre 2019 assisteremo ad un probabile rialzo dei tassi, alla fine di un periodo di mercati azionari “dopati” e all’addio a Draghi (con relativi timori su Weidmann). Le quotazioni in Borsa rispecchieranno finalmente i valori reali delle aziende o assisteremo a un crollo del mercato azionario? Raggiungeremo una unità dell’area Euro o sarà egemonia tedesca? Armageddon o Resurrezione?