Oscar Wilde scrive che gli sciocchi hanno la sorte migliore in questo mondo. Assistono, attoniti, al “gioco”. Senza capire. Ma anche senza soffrire.
È un’osservazione, o meglio un aforisma acuto e, come sempre, pungente. Ma più amaro dell’usuale. Venato di quella malinconia che diviene la sigla dell’ultimo Wilde. Che, in fondo, si trovò davvero a rimpiangere di non essere uno sciocco. Perché questo, forse, gli avrebbe permesso una vita sicuramente più grigia. Ma meno tormentata e dolente.
Biografia di Wilde a parte, l’aforisma descrive perfettamente una certa… condizione umana. Perché a tutti sarà capitato, una o più volte, di desiderare di essere sciocchi. Di non capire. Di non rendersi conto… A tutti quelli che, naturalmente, non lo sono. Almeno non usualmente. Perché una cosa è fare delle sciocchezze… altra, essere sciocco. Due cose molto diverse.
Perché lo sciocco di sciocchezze non ne fa (e mi scuso per il gioco di parole). Perché, vedete, per commettere una sciocchezza è necessario rendersi conto, prima o poi, che questa è tale. Il che implica che la “sciocchezza” è altra cosa da me. Che la mia coscienza non è totalmente identificata con questa.
Al contrario, lo sciocco segue, coerente, la sua natura. E, in fondo, ne è soddisfatto. Non felice, ché la felicità gli è preclusa, come l’autentico dolore, come tutte le grandi emozioni e passioni… Ma soddisfatto, appagato sì. Lo è. Perché è un uomo che non distingue i sapori. E quindi è pago quando ha lo stomaco pieno…di cosa, non conta…
Non va, però, confuso con il “povero di spirito” evangelico. Come spesso si fa, anche a causa di una cattiva lettura del testo greco. Che parla di “poveri in spirito”. Non “di spirito”. Ovvero di coloro che vanno mendicando, cercando lo Spirito. Atteggiamento che non è certo dei veri sciocchi. Che non cercano nulla. Perché, in fondo, le cose vanno loro bene così come vengono.
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli. E presi con abbondanza dalla quotidianità. Soprattutto da quella degli ultimi anni . Una quotidianità alterata. Allucinata e allucinante. Che abbiamo tutti, chi più chi meno, dovuto subire. E però lo sciocco non ha fatto una piega. Non che si sia schierato, per carità! Non è nella sua natura. E neppure che avesse, di suo, più paura dei virus di tanti altri. Semplicemente…. accettava tutto. Senza farsi tante domande. E quindi viveva senza tanti patemi.
Barbara D’Urso gli spiegava come lavarsi le mani…e lui se le lavava come se prima non lo avesse mai fatto.
Gli dicevano di tenere le distanze, portare la mascherina, evitare ogni contatto. Anche sessuale. E lui…eseguiva. Senza farsi domande. Lo chiudevano in casa. E lui in casa restava. Tranquillo. Senza particolari sofferenze. Poi gli hanno detto che è finita. E lui è tornato alla sua normalità. Dalla quale, a ben vedere, mai era uscito… Una condizione, rispetto a quella di tanti altri, tutto sommato…beata.
È la condizione dell’attonito. Che non si pone domande sulla vita. Né sulla storia, o le storie che si svolgono intorno a lui. E che, di fatto, determinano e scandiscono la sua esistenza. Certo, può provare momenti di soddisfazione, e altri in cui si sente non appagato. Ma comunque il suo esistere si svolge su un piano privo di asperità. Respira, mangia, si accoppia. Un giorno smette di respirare. Punto. È il “verme piatto” di cui parla quel geniaccio irregolare – si definiva “fascista zen” – di Laferty, in “Quarta fase”. Strano romanzo in cui il mondo è conteso da quattro stirpi: i Falchi, i grandi Serpenti, i Rospi e i Tassi.. Una lotta occulta, della quale, però, il “verme piatto” nulla sa. Continuando a vivere beatamente inconscio. Non un romanzo di Fantasy comune. Dietro, vi è la rilettura de “Il castello” di Teresa de Avila.
Nell’aforisma di Wilde, molta amarezza. L’esperienza della coscienza è dolore. È una, lunga, discesa agli inferi.
Forse , sarebbe preferibile, come diceva un mio vecchio amico, ogni mattina guardarsi allo specchio e ripetere più volte: devo diventare più stupido!
Chissà se funziona….