“È bella la Notte. Bella quanto il giorno è volgare…” così il Principe Antonio De Curtis. Più noto come Totò. La maschera che indossó per tutta la vita sul palcoscenico, e sul grande schermo.
Una maschera straordinaria. Una creazione da Commedia dell’arte. Meglio ancora, da antica Atellana romana. Resa possibile da una mimica facciale unica. Una faccia plasmabile a piacimento. Come cera. E tuttavia, una maschera che cancellava, nascondeva e faceva sparire l’uomo. Come sempre avviene. Chi si ricorda di Ferruccio Soleri? È stato l’ultimo, grande, Arlecchino. E tutti ricordano Arlecchino. Non lui.
Così Totò ha fatto sparire nell’ombra il principe De Curtis. Che era uomo complesso. Dalle molte sfaccettature. Tra l’altro poeta, nella tradizione propria del vernacolo napoletano. E perciò anche autore di canzoni.
Soprattutto, però, a suo modo filosofo. Strano filosofo esistenzialista, che, probabilmente mai aveva letto Sartre… E che traeva da una vita non facile, battute e riflessioni folgoranti. Come aforismi
E qui cade la sua riflessione sulla bellezza della Notte. E sulla, contrastante, volgarità del Giorno. Un amore per la Luna che ricorda Leopardi. E il Pierrot di Laforgue. Il gusto di camminare nella città deserta. Ascoltandone i suoni. Le voci misteriose. Cogliendone la vita nascosta …
A tratti, immagini che mi ricordano Maia di D’Annunzio. Il rientro dopo la crociera in Grecia nel porto, e lo sbarco notturno nella città. Che è proprio Napoli. La città di Totò.
Certo. Vi è un afflato romantico in questo amore per la notte. Quel romanticismo perenne, che non corrisponde a un’epoca storica. Piuttosto ad un lato, per lo più nascosto, dell’animo umano.
Tuttavia, qui, mi sembra necessaria una precisazione. La Notte di cui parlo, di cui parla il principe, non ha nulla a che spartire con le mode della movida. Con i locali affollati. La confusione. Il rumore. La smania di divertimento e piaceri artificiali.
Appunto, artificiali. Perché altro non è che un protrarre la volgarità del giorno oltre il tramonto del sole. È Tenebra, che permette di fare impunemente ciò che alla luce sarebbe, forse, vergogna. Ma la Tenebra non è la notte. Così come il giorno, affollato, volgare, non è il Sole. E la sua luce.
La Notte è silenzi. E luminosa solitudine. Contemplare le stelle e la Luna. E Totò (De Curtis) non a caso fa riferimento ad un animo contemplativo. Orientale. Il suo, per antica discendenza da Imperatori di Bisanzio. Un retaggio di sangue di cui andava orgoglioso.
La Notte è magica. E mistica. Ed è erotica. Ma un erotismo sublime. Mai volgare. Mai svenduto alla folla.
“Notte, lucente notte…” dice Andreas Gryphius, il più grande lirico tedesco del Barocco. Che in questa luce trova un attimo di pace, un farmaco alla brutalità dei giorni che era costretto a vivere. La Guerra dei trent’anni, le guerre di religione che per un secolo devastarono la sua Germania.
E pensiamo al quadro più famoso del nostro Hayez. Il Bacio. Due innamorati nella notte. Vi è più eros in quella scena, apparentemente casta, che in tutta la, volgare, pornografia dei nostri giorni.
Sono due solitudini che si incontrano. E si riconoscono, forse, in una passeggiata nella città. Deserta e silenziosa. Si riconoscono come una cosa sola. Una unità perduta. Se vogliamo, il mito, di origine platonica, dell’androgine.
Ma ciò può avvenire solo nella Notte. In quella luminosità diversa. Che rivela gli aspetti nascosti dal giorno. Gli aspetti delle cose. E delle emozioni.
La Notte è bellezza. Solo che è una bellezza…ardua. Incute paura perché ci si deve misurare con se stessi. La luce della Luna ti costringe a questo. E così le Stelle.
Per questo cerchiamo di illuminare artificialmente la notte. E di farne un semplice prolungamento del giorno. Della sua volgarità, in cui siamo usi perderci.
Eppure basterebbe poco. Una passeggiata in una strada di montagna. Il profumo dei fiori, più intenso dopo il tramonto. Lo scroscio dell’acqua in un vecchio lavatoio di pietra. Il silenzio. L’aria tersa. La Luna e le stelle.
La bellezza, appunto.