“L’anima tua è da viltade offesa /la qual molte fiate l’omo ingombra/ sì che d’onrata impresa lo rivolve /come falso veder bestia, quand’ombra…”
Versi del II canto dell’Inferno. Il contesto è quello di Dante che, accingendosi a seguire Virgilio nel cammino alto e silvestro, a scendere negli Inferi, viene preso dal dubbio. Io non Enea, io non Paulo sono… Io non sono un eroe né un santo. Perché dovrei poter compiere una simile impresa?
La risposta di Virgilio è tranciante. Tu hai paura. Ed hai paura non della realtà, che ancora non sperimenti né conosci. Hai paura dei fantasmi che alimenti nella tua mente. Sei come una “bestia” – priva di intelletto e ragione – che si lascia terrorizzare da ombre prive di sostanza. E così rinuncia a tentare qualcosa, ancor prima di provarci.
Dante esprime, qui, perfettamente la radice dei fallimenti dell’uomo. Che, certo, quando si imbarca in qualche impresa, può uscirne sconfitto. Per molteplici ragioni. Ma che, spesso, si blocca prima ancora di iniziare, paralizzato dai suoi stessi dubbi. Dalle sue ombre. E questo, per il Poeta, è cosa inaccettabile. Naturale, forse… Ma naturale per le bestie. Non per gli uomini.
Noi, spesso, consumiamo – verbo dantesco – le imprese prima di osare iniziarle. Ci lasciamo assalire dai dubbi. Ci poniamo tante, troppe domande prive di vero senso. Perché non sono domande reali. Vengono dai nostri… fantasmi. Dai lati in ombra della nostra psiche.
Abbiamo, in sostanza, paura. Paura di rischiare. E qualsiasi cosa importante, nella vita, qualsiasi scelta, rappresenta sempre un rischio. Inevitabilmente.
E lo rappresentano soprattutto quelle scelte che alla nostra vita possono imprimere una svolta. Importante. In tutti i campi. Dall’amore al lavoro. Alla libertà. Ma noi… abbiamo paura. Ed è normale. Inevitabile. L’ignoto non può non generare inquietudine. Solo che questa paura non vogliamo ammetterla. Soprattutto con noi stessi. E così accampiamo, nella nostra mente, una caterva di ragioni. In apparenza ottime. Perfettamente razionali…
“Io non Enea, io non Paulo sono”. Inoppugnabile. Dante non è né Enea, né San Paolo. Ma da questo deriva la giustificazione a non fare. A non prendere una decisione. A non rischiare. E resta fermo. Ma restare fermi nella Selva Oscura significa morire. Morire dentro.
La nostra capacità di autogiustificazione, di auto inganno è immensa. I nostri fantasmi sono legione. E persuasivi. Ci convincono a restare chiusi nel guscio delle nostre abitudini. Del consueto. Che però ci soffoca. Spegne. Ci condanna alla solitudine e, a poco a poco, ad un declino sempre più cupo. Stiamo male lì, in quella prigione. Ma abbiamo timore di uscire. Anche solo di verificare se il carceriere ha chiuso la gabbia. Se vi è un altro orizzonte al di là di quella soglia. Troviamo tutte le ragioni per non farlo. E diamo la colpa agli altri. O al destino cinico e baro, per dirla con il compianto Giuseppe Saragat. Poi viene il giorno che ci volgiamo indietro. Come profetizza il Leopardi del “Passero solitario”. E capiamo. Ma ormai è troppo tardi. Abbiamo dato retta ai fantasmi. Ci siamo fatti spaventare dalle ombre.
La risposta di Virgilio è secca. Non ammette dubbi né zone di ambiguità. La viltade è una offesa, una ferita inferta nell’anima. Chi si ripiega su questa ferita, non ha più speranze. Né alcun diritto, poi, di recriminare.
Non si limita a questo, però. Al Dante tremebondo indica ciò che può scuotere il suo torpido lasciarsi morire dentro. Gli ricorda Beatrice che non è (solo) una Donna. È lo slancio verso il futuro. Il coraggio di rischiare. Di mettersi in gioco. Di mettere in discussione le mura della cella in cui ci siamo da soli rinchiusi.
Fugare le ombre. E rimettersi in cammino. Virgilio è il vero cambiamento. La vera rivoluzione. Che è sempre interiore. Che parte sempre da noi.