Per i Romani, dopo la crescente influenza della cultura ellennca, le Camene si identificavano con le greche Muse. Le figlie di Memnosine ed Apollo. Ma era una identificazione superficiale. Di facciata. Buona per il volgo e per le esercitazioni retoriche. Perché le, latine ed italiche, Camene non erano le Arti. Erano il Canto, certo. Ma il canto del Destino.
Erano legate alle fonti, alla terra, al focolare domestico. Al parto, ché Antevorta e Postvorta rappresentavano i due momenti della nascita. Prima e dopo il parto. Tuttavia non andrebbero intese come se agissero nell’atto fisico della nascita. Il loro canto tracciava il futuro del nascituro. E lo ricollegava ad un fato determinato in fase pre-natale. E Carmenta aveva dono profetico. Egeria consigliava i Re. La tradizione vuole che fosse l’amante di Numa Pompilio, il successore di Romolo, che diede alla città leggi e istituzioni sacre.
Fu poi Livio Andronico, traducendo da Omero la sua Odusia, a forzare nell’identficazione con le Muse. D’altra parte il raffinato poeta/traduttore, giunto schiavo da Taranto, e divenuto liberto della gens Livia, deve aver avuto un suo bel da fare per cercare di spiegare la cultura greca a quei bellicosi pecorai che stavano diventando i padroni del mondo…
Comunque, al solito, mi sono fatto prendere la mano da quel tanto di erudito barocco che vive in me. Perché non è delle Camene, delle loro differenze con le Muse, delle diverse interpretazioni dei dotti, che volevo, anzi che voglio parlare. È, invece, del loro Canto. O meglio del Canto del Destino.
Perché trovo suggestiva l’immagine del Destino che ti viene incontro come una musica. O meglio, come una canzone. In verità concezione antica, che si riflette in tante diverse tradizioni popolari, e detti (cambia canzone! per significare cambia la tua vita), e nella fantasia di poeti e scrittori.
Perché nella musica, nel canto, vi è sempre un che di…fatale. E, prima o poi, tu prendi coscienza di quale sia la canzone che suona per te.
Penso a certe canzoni militari. El novio de la Muerte. Che gli uomini del Tercio, la Legione Spagnola, erano soliti intonare durante le cerimonie religiose. E prima di scendere in battaglia. Ne ricordo un filmato durante la cerimonia del Venerdì Santo. A Siviglia, credo. Di incredibile potenza e suggestione. Il coro, solenne, di voci maschili, baritoni e bassi, accompagnava la processione del Christo nel sudario. Avevi davvero l’impressione che in quel canto vi fosse il senso della vita. E della morte. Del destino, quindi…
Seneca, nelle Lettere a Lucilio, il manuale pratico dello stoicismo – più una disciplina spirituale, che una astratta teoria filosofica nel senso nostro – dice che, di fronte al Destino che ti viene incontro, hai solo due…opzioni.
Puoi opporti, ribellarti. Rifiutarlo e negarlo. Bestemmiare tutti gli Dei o l’unico Dio da cui tutto proviene. Otterrai solo di finire nel tragico. Di soffrire di più. E soprattutto di perdere te stesso.
E puoi amarlo. Così come dirà, poi, anche Nietzsche, riprendendo proprio gli antichi stoici.
Amandolo, certo, non lo potrai cambiare… ma otterrai di raggiungere un distacco, una sospensione del dolore. L’atarassia. Che non è assenza di emozioni. Piuttosto, la capacità de vivere, intensamente, ogni emozione, senza però identificarsi totalmente con questa. Contemplandola come altra da sé. O, meglio ancora, ascoltandone e apprezzandone più profondamente la musica. Il canto, con la sua armonia profonda. E le sue disarmonie apparenti.
Non a caso, per Nietzsche la musica era alla base di tutto. Ed egli stesso fu un discreto compositore, negli anni della giovinezza.
E poi, chissà perché?, in questo gioco di libere associazioni mentali e ricordi, mi viene in mente l’inizio del Silmarillion. Quando Iluvatar, l’Uno, crea il Cosmo con un Canto. E Melkor, il primo Signore Oscuro, comincia, volutamente, a stonare. E allora Iluvatar crea un canto più vasto, capace di contenere, e armonizzare, ogni dissonanza…
Perché il Destino del mondo, come quello degli individui, è fatto di dissonanze, stonature, contraddizioni. Talvolta di suoni orribili. Che ci assordano e stordiscono. Ma, sul fondo, tutto è legato ad una misteriosa armonia. Quella che Seneca chiama la Provvidenza. Che va amata e contemplata. Per essere compresa.
Ma tutto sto discorso per dire cosa? Siamo di nuovo a corto di argomenti, eh?
Già lo sento il Direttore. E forse non ha, almeno stavolta, neppure tutti i torti…. Solo che è una sera di inizio giugno. Calda, davvero troppo calda. Sono in terrazza a fumare. E lascio andare i pensieri…così a caso… Davanti a me, un’aiuola fiorita. Rose. Bianche e vermiglie. Mi fanno venire in mente tanti ricordi. E tanti suoni delle…morte stagioni, come dice Leopardi. E di quella presente e viva.. E mi sembra di sentire, dalla lontananza, giungere una canzone.
Ma forse è solo suggestione.
Forse solo il caldo.