Daniela Raimondi, La casa sull’argine. La saga della famiglia Casadio, Editrice Nord, Milano 2020.

Il romanzo abbraccia due secoli di storia, ma non si deve pensare ad un continuum narrativo che aderisca in tutto e per tutto, senza interruzioni, al lento dipanarsi degli anni; no, qui si procede per salti o, se vogliamo, per quadri. I capitoli del libro sono infatti scanditi dagli anni di volta in volta individuati e messi a fuoco nello snodarsi della lunga catena temporale.
L’autrice opera insomma per selezione. Anche quando privilegia alcuni personaggi, i più originali e interessanti della frondosa famiglia, rispetto ad altri solo sfiorati o accennati. Forse per ragioni di mera economia narrativa. La grande Storia, inoltre, dai moti risorgimentali ai due conflitti mondiali, dall’emigrazione al fascismo, dalla Liberazione all’alluvione del Polesine, dagli anni della contestazione a quelli di piombo, più che innervare concretamente le vicende dei singoli personaggi, fa loro da cornice. O resta sostanzialmente sullo sfondo.
Quando questo non succede – e pensiamo in particolare al caso del garibaldino Achille, che viene a contatto con alcuni eroici protagonisti del Risorgimento -, la scelta riesce un po’ ingenua e gratuita. Più convincenti, invece, risulta il coinvolgimento di Donata negli anni roventi della contestazione, degenerata poi nella lotta armata e nel terrorismo. Se ne può anche azzardare una spiegazione: via via che la Storia viene a coincidere con il vissuto esistenziale dell’Autrice e perde, per così dire, il suo alone mitico o il suo spessore di leggenda, la credibilità della narrazione ne guadagna. Dalla tradizione orale, che sostanzia tutta la prima parte del romanzo, si passa alla testimonianza diretta, all’esperienza autobiografica.
In realtà non sappiamo quanto di autobiografico vi sia nella saga familiare, ma che qualcosa vi sia ci pare indubbio, seppure nelle vicende più remote prevalga di gran lunga la fantasia, magari nutrita, appunto, di oralità. E ammantata dal pathos della distanza. Al di là delle divagazioni fantastiche, la volontà di riscoprire le radici familiari ci sembra autentica, così come la pietas che la innesca. Perché è vero: «c’è sempre […] qualcuno, o qualcosa, che ci tiene legati a un mondo».
Leggendo il romanzo, ci è venuto in mente il weberiano «disincantamento del mondo» (Entzauberung der Welt). L’aura mitica (o magica) che pervade la parte iniziale si riverbera pure sul resto del libro, ma finisce gradualmente, e si direbbe fatalmente, per sfaldarsi e dissolversi alla luce della contemporaneità. Con la morte di Donata, Adele ha «la sensazione che il tessuto che per generazioni aveva unito la famiglia si stesse disfacendo, come se il filo che sino ad allora aveva legato tante vite di colpo si fosse lacerato».
Non è un caso: Donata, anche fisicamente, riuniva in sé i caratteri dei due rami all’origine della famiglia Casadio, fin allora rimasti distinti: quello dei «sognatori con gli occhi azzurri e la pelle chiara» e quello dei «sensitivi del ramo zingaro, con gli occhi neri e i capelli corvini».
All’origine della famiglia o almeno della saga c’è infatti il matrimonio contrastato tra Giacomo Casadio e Viollca Toska: lui dotato di «estro visionario» e di «temperamento malinconico», una zingara, lei, in grado di leggere i tarocchi e di «svelare i misteri del futuro». Chiaroveggente. E proprio da una sua lettura delle carte proviene la sinistra profezia che penderà sulle sorti della famiglia come una spada di Damocle, condizionandone i comportamenti.
Per stornare la tragica premonizione che grava su di loro, i Casadio o, meglio, alcuni di essi rinunciano ai loro sogni, abdicano ai loro talenti naturali, si rassegnano a tradire la propria genuina vocazione. Senza per questo evitare sofferenze e sciagure. Anzi: tradire il destino non è meno tragico, a volte, che accettarne la sfida. Davvero, come scrive Seneca, fata volentem ducunt, nolentem trahunt.
C’è, in questa tensione tra la forza spietata del destino e il libero arbitrio dei personaggi, un’eco della tragedia greca. Al fatalismo e alla rassegnazione di alcuni personaggi si contrappone l’empito agonistico di altri, animati da spirito ribelle e pronti a pagarne il fio. Ad espiare, con la morte o con un volontario castigo, le proprie colpe.
Nessuno, in realtà, si ribella al sortilegio che grava sulla famiglia: tutti, anche coloro che lo negano, anche chi pare meno incline alle superstizioni e respinge ogni trascendenza, ne sono in qualche modo suggestionati. D’altra parte c’è chi parla coi morti, chi coi morti gioca a carte, chi sa leggere nel pensiero e chi presagisce il futuro.
Di fronte al “meraviglioso” che aleggia tutt’attorno e che impronta di sé la cultura – popolare e contadina – del piccolo borgo di Stellata, dove affonda le sue radici la famiglia Casadio e dove sorge l’eponima casa sull’argine (del Po), non resta che o condividerlo o rimuoverlo. Non si spiega altrimenti perché Giacomo proibisca alla moglie di seguitare a fare l’indovina e perché il mazzo dei tarocchi venga per tanti anni relegato in una scatola recondita. Solo quando esso diventerà un innocuo e ludico trastullo, l’incantesimo avrà fine. Ma con esso finirà anche la civiltà contadina, col suo fascino d’autrefois. Tanto che Stellata, un tempo fervida di vita ed ormai abbandonata dai giovani, si ridurrà ad un «paesino […] imbalsamato». A un’ombra di quel che fu.
Sarà la sensitiva Neve, uno dei personaggi più persuasivi del romanzo, a rendersi conto, nel rimirare nell’acqua del Po il sovrapporsi del volto di Donata a quello della sua ava Viollca, che l’incantesimo era forse frutto di un errore d’interpretazione della zingara e di quanti ne rimasero poi ammaliati. Ella avrà allora «la sensazione che premonizioni funeste non avrebbero più tormentato nessuno della famiglia».

Caduto l’incantesimo, s’imporrà la desolazione. Non per nulla la casa sull’argine, già «popolata di memorie e di fantasmi», sarà messa in vendita e svuotata: «Non è rimasto nulla di noi fra queste mura, nulla di tutto ciò che siamo stati», commenterà sconsolata nell’“Epilogo” Norma, la voce narrante in cui si rispecchia l’Autrice. La conclusione del romanzo è una sorta di epicedio e nell’epicedio la casa assurge a simbolo di un mondo scomparso, di una comunità familiare e della terra fra Mantova, Rovigo e Ferrara in cui affondavano le loro radici i «sognatori sconfitti» che danno vita all’epos popolare qui rievocato.
La storia si chiude con uno sradicamento, con uno strappo, dal quale però scoccherà la scintilla della pietas che dovrà risarcirlo. La narrazione si propone come il gesto di Dante che nel canto XIV dell’Inferno, mosso dalla «carità del natìo loco», raccoglie «le fronde sparte» al piede del cespo smembrato dell’anonimo suicida fiorentino. È un gesto riparatorio, che in questo caso risponde pure ad un’esigenza identitaria, al bisogno – proprio di chi scrive – di rimediare allo sradicamento, di riconoscersi in un luogo, in una comunità, in una famiglia. Rivendicando, in una sorta di palinodia, il diritto a sognare. Perché non è vero che i sogni siano solo un lusso da ricchi: «Forse erano proprio i sogni a tenere in vita la gente», si ricrede infine Neve. E con lei concorda la narratrice.
Abbiamo parlato di “meraviglioso”, ma di quale? Se qualche raffronto si può fare con il «meraviglioso padano» di Alberto Bevilacqua, ci sembra nondimeno che le fonti o i modelli cui attinge la Raimondi siano altri, in particolare La casa degli spiriti di Isabel Allende e più ancora, per il realismo magico che ha qui ampio spazio, Cento anni di solitudine di Gabriel García Márquez.
Ma il sostrato popolare è quello padano. E tale è anche il paesaggio, descritto o evocato con poetica maestria, senza pesantezze o pedanterie di sorta. Sublime, nella sua levità quasi estatica, è, ad esempio, la passeggiata notturna che precede la morte di Neve: «Il fiume era una seta…» Il linguaggio, piano e scorrevole, è eminentemente paratattico, di musicale suasione: da poetessa quale è la Raimondi, adusa ad assecondare il dettato di «un angelo» che stringe in pugno «il ritmo segreto dei nomi e dei suoni».
Ma anche i dialoghi, nei quali ella a volte, con icastica naturalezza, inserisce lacerti dialettali, sono ben modulati, di mimetica e non di rado ironica immediatezza. E, quasi a compensare la sommaria ambientazione storica delle vicende, a restituirci un po’ del colore temporale soccorrono i brani di canzone disseminati qua e là nel corso della narrazione. Come tante briciole di Pollicino.