Dunque… Ci vengono a dire che abbiamo fatto le cicale per troppo tempo. Sprechi e lussi. E che ora la cuccagna è finita. Che dobbiamo diventare, o meglio tornare formiche. Perché si preparano anni duri. Un inverno poi… Ma dobbiamo essere contenti. Perché lo facciamo per la democrazia. Per la libertà. Non nostra, naturalmente. Quella dell’Ucraina. Che è cosa molto, ma molto più importante….
Ora, l’italiano è stato sempre un popolo di formiche. E, nonostante le ironie su poeti, santi, navigatori…un popolo di gente che lavorava. E lavorava duro. Tirando a campare con fatica. Popolo, o popoli, come direbbe (forse giustamente) qualche mio amico, in prevalenza contadini. Ed era vita agra da sempre, quella delle campagne. Chi abbia visto quel capolavoro che è “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, forse se ne è fatto un’idea. Chi non l’abbia visto…se lo procuri in qualche videoteca. Merita. Davvero.
Certo, lì viene racconta la campagna bergamasca. E il dialetto mi ricorda la parlata, diversa ma affine, della vecchia Bina. La mia bisnonna materna, che veniva dalle montagne di Varese. Ma un racconto simile Olmi l’avrebbe potuto ambientare in gran parte dello Stivale. Dal Piemonte al Veneto. Dall’Abruzzo alla Lucania. Sarebbero cambiati costumi e parlata. Ma la vita descritta non sarebbe stata molto diversa.
Nelle città era diverso, mi si dirà. Lì è sempre stato tutto diverso… In parte è vero. Ma le città, un tempo, erano poca cosa. Poche e non molto popolose. Roma, la nostra mezza megalopoli, a fine ottocento contava meno di centomila abitanti. Venezia, oggi spopolata, era arrivata a quasi duecentomila nel XVIII secolo. Ma era città di mare. Capitale di un impero mercantile. E le stesso si potrebbe dire per Napoli.
Di fatto, però, il fenomeno dell’inurbamento è cosa recente. Poco più di un secolo. Una manciata di anni, a pensarci bene.
E comunque non è che, nelle città, la vita fosse sempre tanto più facile che nelle campagne. Andate a rivedervi i capitoli del Manzoni sulla rivolta del pane a Milano e l’assalto al Forno delle Grucce. Preferibilmente nella versione originaria. Quella del “Fermo e Lucia”.
Insomma a star davvero bene erano pochi. Gli aristocratici, che potevano contare sulla servitù per alleviare ogni fatica. E i borghesi, certo. Che erano ancora piccola minoranza. E che non avevano problemi alimentari. Di sopravvivenza. Ma non è che si potessero, poi, permettere questi grandi lussi. Tant’è che la vita di una famiglia borghese degli anni ’30, oggi sembrerebbe insopportabile come durezza e fatica anche ai gradini più bassi della scala sociale. E, per molti versi, anche quella degli anni’ 50/’60.
Di mezzo c’ è stata la diffusione della tecnica. E la trasformazione dei cittadini e dei contadini – in costante diminuzione in forza di politiche volte a deprimere le campagne a favore delle città industriali – in consumatori. Consumatori di una nuova società di massa, enfaticamente definita “del benessere”. Vacanze di massa. Lavatrici, lavapiatti, frigoriferi, supermercati, poi internet con annessi e connessi… Il Paradiso in Terra, lo ha definito Christopher Lasch, il più acuto critico della società fine ‘900.
E, in effetti, la tecnica ha fatto sì che praticamente tutti avessero a disposizione la forza lavoro di, almeno, dieci schiavi. Impensabile solo cinquanta anni prima.
Però la tecnica crea dipendenza. Arnold Gehlen, nella prima metà del secolo scorso, ha definito la tecnica Natura Seconda. Ovvero la tecnica è per l’uomo odierno come l’acqua per i pesci. Senza, rischia di morire…
E qui comincia il problema.
Perché ci viene di colpo prospettato un futuro in cui saremo costretti a ridurre, se non totalmente rinunciare al supporto della tecnologia. I segnali, o meglio i messaggi intimidatori in questa direzione sono espliciti. E sempre più frequenti.
Si va dalla minaccia di controlli polizieschi sui contatori e sull’uso degli elettrodomestici, al Premio Nobel che ci spiega come cuocere la pasta senza usare i fornelli.
E qui sarebbe da aprire una parentesi. Perché in questi giorni si sprecano i post che spiegano come davvero, la tesi del Grande Fisico corrisponda ad una possibilità reale. E infatti la pasta può venire davvero cotta a fuoco spento.
Non è una novità. Si può fare. E si cuoce davvero. Diventa colla, una schifezza. Ma si cuoce.
Però a me viene una domanda. Con che la condisci? Un ragù richiede dalle tre alle sette ore di cottura a fuoco lento. A seconda che si segua la ricetta bolognese, o quella partenopea.
Pasta all’olio? Sai la goduria. Diventeremo tutti dei degenti in un enorme ospedale.
Oppure compriamo il sugo al supermercato?
Ma ragioniamo un po’… La produzione industriale. I barattoli. La distribuzione con trasporto. Illuminazione del supermercato. Frigoriferi. E poi smaltimento delle confezioni… Non vi viene il dubbio che, in termini di consumo energetico, costerebbe (e già costa) molto di più della preparazione casalinga? Con decisamente meno soddisfazione per il palato. Transeat… Il Nobel glielo hanno assegnato per la Fisica. Non per l’economia. E neppure per il buon senso o, semplicemente, per il senso del ridicolo…
Ora mi si potrebbe fare osservare che io ho appena tessuto l’elogio della vita semplice di un tempo. Della formica. E quindi, perché devo essere così critico nei confronti di chi, da pulpiti politici e accademici, ci invita a tornare a quello stile? Non mi sto, forse, contraddicendo? E in modo marchiano…
Vedete, il mio bisnonno paterno – oggi sono in vena di memorie familiari – prendeva il vapore, come si diceva allora, e andava, con suo cugino Nicola, a lavorare negli Stati Uniti. Faceva una vita da fame. Di emarginazione. Dopo due anni tornava, comprava un pezzo di terra, stampava un figlio… E ripartiva. Avanti così, finché ne ebbe la forza.
Ma garantì ai suoi figli un futuro migliore. Terra propria. Di che vivere, senza bisogno di emigrare. Poi, la generazione di mio padre poté studiare…
I sacrifici, molti, avevano un senso. Costruire il futuro dei figli. Delle generazioni a venire. Se vogliamo, costruire un paese…migliore. Dove si potesse vivere senza troppe rinunce.
Ma ora? A che dovrebbero servire i sacrifici che vengono chiesti? Per altro a generazioni che non hanno la più pallida idea di cosa significhi la parola “sacrificio”…
A garantire le velleità nazionalistiche de Zelensky e dei suoi accoliti? Incarnazione di quella che Nietzsche definiva “la bestialità nazionalista”. Assurda. Priva di fondamento storico. Eppure alimentata da interessi finanziari. Di élite, autoproclamate, che guardano solo a interessi finanziari. E considerano gli uomini bestiame da sfruttare e macellare a loro piacere. In sostanza, perché dovremmo soffrire, e morire, per Kiev? O meglio, perché dovremmo farlo per gli gnomi della City e di Wall Street?
E abbassando il tono: perché dovremmo mangiare la pasta scotta e scipita? È una domanda che ci dovremmo cominciare a porre… Prima che sia troppo tardi.