Il partito comunista cinese ha invitato i compagni lavoratori a non trascurare il talamo e ad aumentare il numero dei figli sino a 3 per coppia. Pechino ha deciso che la denatalità si combatte facendo figli, non importando schiavi da altre parti del mondo. Una scelta che sconcerta gli immigrazionisti italiani, convinti che avere una nazione composta da migranti di ogni Paese sia la stessa cosa di avere una nazione etnicamente omogenea.

D’altronde, per la gauche caviar cosmopolita, l’unica cosa che conta davvero è la manodopera a basso costo. Dunque non importa la provenienza, ma solo la possibilità di sfruttamento. L’anima di un popolo è irrilevante, anzi rappresenta un errore del passato da estirpare.
Mentre la Cina, che si sente parte di un progetto storico plurimillenario, vuole imporre la sua egemonia che è culturale prima ancora che economica. Perché anche l’economia di Pechino è la conseguenza di un’idea, di una cultura. Il terzo figlio, così come il secondo, non rappresentano solo i numeri per sostenere una nuova ondata offensiva a livello planetario, ma servono anche per migliorare il primogenito.

La politica del figlio unico, infatti, non aveva solo prodotto effetti negativi in termini numerici ma aveva portato i genitori a coccolare ed a proteggere in modo eccessivo il proprio unico erede. In pratica si era creata una generazione di bamboccioni mentre il governo avrebbe voluto giovani brillanti, coraggiosi, competitivi. Una grande potenza non può rassegnarsi a giovani pigri, rassegnati, incapaci di affrontare la realtà. Può andar bene per l’Italia mammona, non per la Cina impegnata a conquistare il mondo.
Ed il mondo lo si conquista con la consapevolezza di far parte dell’impero del dragone, non aggregando disperati in arrivo da Paesi poveri.