“La città che sale” è uno dei quadri più famosi di Umberto Boccioni. Con il suo vecchio maestro Balla, e con Sironi, il massimo genio pittorico del Futurismo.
È una delle sue tele più famose. Data al 1910. È il primo Boccioni futurista. Il Manifesto di Marinetti risaliva appena all’anno precedente.
Una visione dinamica, come uno spaccato di periferia urbana – soggetto particolarmente caro al pittore – visto, forse, da una finestra. Uomini, animali, carri, macchine in febbrile movimento. E l’ergersi, tutto intorno, di edifici, ciminiere di fabbriche. Cantieri.
È il tema futurista della Città moderna. Il segno di una, inarrestabile, titanica, proiezione verso il nuovo. Non un progresso graduale ed equilibrato. Tranquillizzante e ottimistico, come volevano i vecchi positivisti. Qui non vi è nulla del Balletto Excelsior. C’è, piuttosto, Nietzsche. Una particolare lettura dell’Oltre Uomo.
Mi affaccio al balcone. E guardo la città così come è ora. Così come appare. Torpida e fiacca sotto il sole di un Giugno insolitamente rovente. Il cielo ocra per il soffiare, implacabile, dello Scirocco.
Mi domando – una delle mie, usuali, domande oziose – cosa vedrebbe Boccioni. Se fosse qui, al mio posto. Lo sguardo dell’artista è diverso. Vede ogni cosa non secondo la convenzione del percepire comune. Ma nell’ottica di un insieme di linee, punti, superfici. Colori e prospettive. Sulla fronte porta un lanternino magico. Non quello comune, di cui parla a Mattia Pascal, il professor Anselmo Paleari…
Vedrebbe. E trasformerebbe in colore, tratto, movimento. Quei vecchietti che portano a spasso il cane. Un botolo tignoso. Squallidi. In infradito e brachette corte. Da cui spuntano gambette bianche, pelose, rinsecchite… La canotta colorata. Il berretto da baseball in testa. Quasi un inconscio desiderio di una giovinezza forse mai davvero vissuta.
Le auto parcheggiate in modo caotico. Vicino a cassonetti delle immondizie debordanti. Nugoli di mosche. Ratti. E cornacchie, gabbiani attratti dall’abbondanza di cibo. Dal movimento veloce, intuisco una volpe… Potrebbe arrivare anche qualche cinghiale. Non sono leggende. Ne ho visto, giorni fa, uno, steso su un materasso buttato accanto alla spazzatura. Un cinghiale molto…romano. Faceva la pennica, soddisfatto dal pasto abbondante..
Rumore di auto in lontananza. Monotono. E le luci, all’orizzonte, del Gra. Il Grande raccordo anulare. Perennemente intasato, nelle ore di punta.
Le case tutto intorno. Cassoni tutti uguali. In “Cortina”. Le mura di finti mattoni rossastri. Le inferriate bianche alle finestre. I cortili parcheggi decorati da stente aiuole… Quartiere residenziale, dicono. Con pretese di eleganza. Solo pretese.
Vedo passanti in mascherina. Soli. O con il cane. O alla guida della loro auto. Per terra, sul marciapiede sconnesso, sulla strada piena di buche, dove l’asfalto è bollente, e si scioglie sotto i passi, quasi una palude, altre mascherine. Luride. Abbandonate in mezzo ad altro luridume. Bottiglie di birra vuote. Alcune ridotte a cocci.
Sacchetti, scatoloni sfondati, water di ceramica rotti. Coperte lise. Vecchi giocattoli. Una scarpa dalla suola bucata… Tutto ammassato alla rinfusa. Un negozio di rigattiere a cielo aperto…
Dei bambini giocano a pallone. Ua vecchia gli urla contro. Dalla finestra. Riconosco alcune parole. Amministratore…carabinieri…
Non è una città per giovani. I vecchi, molti, rimpiangono i mesi del lock down. Quel silenzio irreale, da cui si sentivano tutelati. Protetti e privilegiati.
Il pratone di fronte a casa è tutto stoppie già ingiallite. Le siepi sono state tagliate di fresco. Malamente. Ora sembrano solo un ammasso di rami secchi.
Un cane abbaia qui vicino. Un altro latra in lontananza. E vedo il movimento, sinuoso e suscitante, di un gatto fra i pneumatici delle auto addormentate..
È la città. Mi dico. La città che…scende. Che si ripiega su se stessa. Si accartoccia. Muore. Diventa…cadavere decomposto.
Ci vorrebbe un Boccioni per rappresentarla. Un Boccioni ormai privo di illusioni. E di sogni