Durante uno zapping inconsueto, compiuto alle 11 di un lunedì (erano anni che non guardavo la televisione di mattina, per di più feriale), scopro da un programma-contenitore che una starlette televisiva dei tempi andati è stata vittima di una fastidiosa manipolazione sui suoi account social.
La scelta di parlarne e di ospitarla a me pare incomprensibile, data l’ormai minima notorietà della signora che, mi viene malignamente da pensare, dovrebbe quasi ringraziare l’invasore dei suoi profili per averle consentito di apparire sui mass media con una simil-motivazione di cronaca. Non intendo beninteso accusarla di avere provocato a bella posta l’incidente, anche se sono stati scoperti recenti e clamorosi casi di fake create per rilanciare personaggi dello show biz caduti nel dimenticatoio. Che qualche sciagurato hackeri gli account di personaggi pubblici mi pare plausibile e la signora ha tutta la mia umana solidarietà: semplicemente, la notizia che la riguarda non mi interessa.

Dopo pochi secondi di attenzione cambio canale, per poi spegnere definitivamente il televisore con ancora maggiore rapidità. Commuto quindi in modalità web e vado ad aprire alcune notizie che un grande portale mi fornisce in slide show, scoprendo che un’altra starlette sfoggia un look “clamoroso”, a detta del redattore della notizia, che però a me sembra assolutamente banale. Forse sono io a non cogliere la notizia che, stavolta, mi pare proprio inesistente. Perché, allora, il concentratore la spinge verso di me?
Considerando la navigazione randomica che tutti compiamo sul web, il ruolo che motori di ricerca e algoritmi svolgono nel proporci un contenuto o un palinsesto è fondamentale quanto invasivo: sarebbe bene che qualcuno lo regolasse, magari senza attendere che una ragazzina muoia giocando sul suo social preferito.
Certi meccanismi sono noti. Non siamo noi ad andare incontro alle informazioni, sono loro che ci vengono offerte, con modalità tanto suadenti da illuderci di avere scelto cosa sapere. E, di conseguenza, cosa pensare. Resto però perplesso nel momento in cui applico il medesimo ragionamento alle notizie sulla crisi di governo, verso cui effettivamente nutro lo stesso disinteresse che ho per le avventure dei semi-personaggi dello show.

Da un lato mi dico che se prime pagine dei quotidiani e tg di prima serata sono monopolizzati dal passaggio di mano tra Conte e Draghi, se proliferano commenti sul vecchio e sul nuovo esecutivo in ogni canale mediatico, è perché non si può non dare rilievo al tema. È perché dalle sorti del governo dipendono quelle del paese e del popolo. Dall’altro mi chiedo se anche questa notizia risponde alle stesse logiche eterodirette della gerarchizzazione mediatica nota come agenda-setting.
Chi decide che un argomento è importante? Chi decide che una notizia è davvero tale? E una crisi di governo lo è sempre? Forse la mia perplessità nasce da un peculiare fastidio per la politica (non è un semplice disinteresse, è proprio un’allergia). Forse è dovuta al fatto di essere cresciuto, in quanto baby boomer, in un epoca nella quale i governi si avvicendano pressoché annualmente: e questo non attestava un’alternanza o una fragilità del sistema di potere ma, al contrario, una solidità basata proprio su lotte intestine e su continui, apparenti rivolgimenti di fronte.
Una crisi così la politica se la sarebbe inventata, e forse se l’è davvero inventata, tanto ne aveva bisogno. Altrimenti, complice la pandemia, avrebbe rischiato di perdere il primato di “notizia di apertura” che non ha mai ceduto tranne che per brevi periodi. E che invece, per la prima volta da quando esiste la repubblica, aveva perso per ben un anno.

Ora le “dichiarazioni” degli esponenti dei partiti hanno potuto riprendere il pieno sopravvento. Già, perché ormai nemmeno si finge più di intervistarlo, un politico. Non c’è nemmeno più il “pastone” alla Vittorio Orefice. Lo si mostra direttamente in favore di camera mentre recita una frase preconfezionata e tagliata su misura. Basta mandargli un operatore o addirittura, se il politico ne è capace, chiedergli un’autoregistrazione. Una cosa indegna che neppure le peggiori televisioni bulgare e nordcoreane. E però Usigrai, Ordine dei giornalisti, Fnsi, pubblico e cittadini incassano senza battere ciglio. Altro che agenda setting.