Provate ad immaginare di guardare l’Italia con un potentissimo telescopio in orbita: puntatelo su Genova, sul viadotto maledetto. Vedrete delle rovine ciclopiche: uno scenario che toglie il fiato, per la sua innaturale e tragica grandiosità.
Ammettiamo che, oltre alle immagini, questo telescopio vi permettesse anche di mettere a fuoco altre cose, come i pensieri, le storie, la storia.
Nella messa a fuoco dell’immediato, potreste sentire i commenti, il dolore, la ripugnante sicumera dei politici: ma figuratevi di allargare il campo, un poco alla volta, e di riuscire ad osservare l’intero scenario, intorno a quel disastro.
Il dato immediato, certamente, è quello di un’opera concepita per altre esigenze, costruita con qualche pretesa avveniristica di troppo, scarsamente mantenuta e per nulla analizzata seriamente dai manutentori.
In realtà, il crollo del ponte Morandi è uno di quegli eventi che rappresentano la fine di un’epoca e, forse, l’inizio di un’epoca nuova.
L’epoca finita è quella cominciata alla fine degli anni Cinquanta: epoca di euforia infrastrutturale, almeno all’inizio, e di enormi spese pubbliche, cui sono seguite, inevitabilmente, le prime, enormi mazzette, nel contemporaneo sviluppo del Paese e della velenosa stretta tra scelte politiche ed interessi privati, che ha dettato il destino dell’Italia che venne poi. La fiducia nel progresso, combinata con quella nel capitalismo eterno, ha dotato l’Italia di una rete di trasporti considerevole, con opere di alta ingegneria, che sono state ammirate in tutto il mondo. La scelta di allora fu quella di fare viaggiare le merci su strada: era evidente il desiderio di favorire chi, all’epoca, rappresentava l’industria dei trasporti e che, nonostante i modi aristocratici, ha sempre operato come il più avido dei satrapi.
L’Italia aveva un’evidentissima vocazione al trasporto su ferro, ma i signori della gomma dissero di no: questa è la prima delle molte svolte sbagliate della nostra storia economica recente. Lo stretto rapporto tra potentati industriali e politica divenne ancora più asfissiante a cavallo degli anni Novanta, quando si diede il via alle privatizzazioni selvagge: i due santoni di questa nuova religione del “meno Stato” e del liberismo a tutta manetta furono, in concorde operato, anche se in apparente contrapposizione, Prodi e Berlusconi.
Moltissime imprese statali passarono ai privati: tra queste, buona parte della nostra rete autostradale, compreso il ponte Morandi e l’A10, che lo inglobava.
Oggi, l’idea che questa cessione sia stata propiziata dallo stesso uomo che rase al suolo l’IRI, fa quasi sorridere. Ma non fa sorridere la filosofia che ci sta dietro: quella del guadagno ad ogni costo, che ha sempre animato certa intrapresa italica.
E’ una dottrina che ha origini certe; prendete le tv private: la pubblicità le mantiene in vita, quindi cercano lo share ad ogni costo, perchè lo share vuol dire denaro sonante. La tv pubblica, invece, con il canone, avrebbe dovuto garantire livelli culturali più alti, equanimità, attenzione al sociale, alla cultura: viceversa, anche la Rai si è adeguata ed è diventata lo schifo che potete vedere. Perchè tutti inseguono il profitto, nel mondo magico del liberismo.
Nel caso delle autostrade è la stessa cosa: i privati vogliono guadagnarci il più possibile, ed ottengono utili mirabolanti, a spese di manutenzione e sicurezza, facendoci pagare tariffe tra le più alte al mondo.
Ora, la tragedia di Genova ci ha mostrato chiaramente che il re è nudo: ha svelato il fallimento non solo del nostro sistema di trasporti, ma, se possibile, dell’intera Weltanschauung di chi ha governato l’Italia negli ultimi decenni, fregandosene allegramente degli Italiani.
Torniamo al nostro telescopio, dunque, e domandiamoci come andrà a finire.
La prima ipotesi, quella immobilista, è che, cessati i lamenti, affievolite le polemiche, silenziate le intemerate, la gente tornerà a farsi gli affari suoi, tra Cristiano Ronaldo e lo spread.
La seconda, quella meno probabile ma più riferibile ai flussi della storia, è che, come dicevo all’inizio, il collasso del viadotto Morandi possa diventare il punto di partenza di una nuova epoca e la fine di un modo di concepire l’Italia.
Ecco il mio pensiero, in breve e in assoluta sintesi. Da sempre, la soluzione per uscire dalle gravi crisi economiche ed occupazionali si è cercata nelle commesse statali a grandi opere pubbliche: da Keynes a Mussolini, da Roosevelt a Stalin, la risposta all’immensa defaillance del liberismo, alla fine degli anni Venti è stata quella di un massiccio intervento dello Stato nell’economia, con il lancio di colossali e straordinarie campagne di interventi infrastrutturali.
In Italia, dove l’edilizia ristagna e dove vi è un bisogno disperato di infrastrutture nuove e del recupero di quelle già esistenti e recuperabili, un’enorme campagna di opere pubbliche potrebbe essere la quadratura del cerchio: lavoro per i prossimi trent’anni, che cambierebbe il volto del Paese, spostando radicalmente il trasporto dalla gomma al ferro.
Tanto, ormai, la FIAT di italiano non ha nemmeno il nome, e John Elkann non ce lo vedo a picchiare i pugni sul tavolo, come il suo augusto avo.
Insomma, se c’è una cosa che si vede bene dal nostro telescopio è che il liberismo ha fallito e che c’è una gran voglia di Stato. Di uno Stato vero, coraggioso, dalla parte dei cittadini e non delle lobbies economiche: uno Stato libero di fare lo Stato e non il lacché di potentati internazionali.
Gli Italiani sono un popolo strano: sembrano pecore immobili, finchè una grande disgrazia non ne risveglia le energie sopite.
Sarà abbastanza grande questa spaventosa tragedia, per risvegliarci? Col nostro telescopio, purtroppo, si vede bene il passato, ma non si prevede il futuro: per quello ci sono gli indovini. E c’è la speranza.
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