Agli inizi del XX secolo, un gruppo di facinorosi delle patrie lettere, aiutati mica male da robuste libagioni e qualche tiro di cocaina, postulò che la quarta dimensione, ovvero quella che avrebbe dovuto segnare i tempi futuri, fosse la velocità.
Idea formidabile: la velocità serve a risparmiare la cosa più preziosa che l’uomo possieda, cioè il tempo.
Invece, a un secolo di distanza, dobbiamo prendere atto che quella profezia così allettante si è realizzata in una forma degenere ed altamente perniciosa: la velocità si è concretizzata nella fretta.
Noi viviamo nell’epoca della fretta: e la fretta, al contrario della velocità, il tempo ce lo fa perdere, anzi, sprecare, e non risparmiare. Frettolose sono le analisi e frettolosi gli esami: mille cose, fatte in fretta, non reggono alla prova del tempo.
Non siamo più abituati a pensare con calma: a spingere il nostro giudizio aldilà della più frettolosa contingenza. Viviamo in un mondo di ascensori, funicolari, funivie, elicotteri, aviogetti, aliscafi: tutte macchine il cui scopo è farci superare più in fretta, e senza fatica, altezza, lunghezza e larghezza.
Ma abbiamo perso il senso della bellezza del viaggio: viaggiare, oggi, è semplicemente uno spostamento da un punto all’altro. Data la fretta di essere in quel dato punto, il viaggio è soltanto una perdita di tempo, più o meno lunga. Una volta, il viaggio era, di per sé, una parte importante della vita: senza fretta.
La fretta ci fa giudicare strabicamente le cose e le persone: i nostri giudizi sono spesso sommari, i nostri amori rapinosi e vani, le nostre amicizie occasionali e strumentali. Il mondo governato dalla fretta è un mondo privo di profondità, di valori, di tradizioni: è un mondo la cui trista metafora è la polenta istantanea.
Il campo, tuttavia, in cui la fretta mostra appieno tutti i suoi limiti e la sua devastante capacità di invalidare le nostre vite è, a mio parere, quello della politica.
Intendiamoci: ci sono azioni politiche in cui la fretta è d’obbligo. Si chiamano emergenze, e proprio per quei casi, la nostra costituzione prevederebbe uno strumento legislativo apposito: il decreto legge. Uso il condizionale, perché, stante l’ingovernabilità dell’Italia, il decreto legge, in realtà, viene usato spesso come mezzo per velocizzare l’iter legislativo, altrimenti eterno.
Al di fuori delle emergenze, però, la politica dovrebbe essere capace di pensare senza fretta, senza l’insopportabile pressione della stampa e delle televisioni, senza lo stupido berciare della piazza, incarognita e incapace di saggezza. Pensare in grande: progettare il Paese di qui a trent’anni, non di qui a tre mesi. Il che implica il fare delle scelte le cui conseguenze si vedranno sulle prossime generazioni, non la prossima settimana.
Questo significa essere statisti: altrimenti, si passa il tempo navigando a vista, senza mai mettere mano a riforme davvero strutturali, badando solo a non perdere la poltrona, in una patetica riedizione del gioco dei quattro cantoni.
Certo, ci vogliono coraggio e idee chiare: bisogna affrontare la canea, che vorrebbe tutto e il contrario di tutto, subito. Bisogna affrontare un mondo che va di fretta, senza mai fermarsi un istante a riflettere: questo fa la differenza tra un cretino qualsiasi ed un politico di rango.
Il politico dovrebbe riflettere, pensare in grande, guardare il futuro. Esattamente come facevano quei quattro invasati che immaginarono l’epoca della velocità: e che, in confronto ai trafelati manager, che vanno di fretta, erano i sette sapienti.
Non pensate alle prossime elezioni: pensate alle prossime generazioni, cari politicanti. E, fra trent’anni, si ricorderanno di voi. Con gratitudine.