Non solo la fuga dei giovani cervelli. Ora si aggiungono le dimissioni, sempre più numerose, degli ultracinquantenni che non ne possono più di un clima aziendale pessimo, di retribuzioni modeste, di orari insopportabili. E, consapevoli che con estenuanti trattative non si ottiene niente, semplicemente si dimettono. Senza troppe preoccupazioni, perché chi ha adeguate professionalità trova un altro impiego.
Lo racconta Il Resto del Carlino, quotidiano tutt’altro che gauchista, in una intelligente intervista a Francesca Amadori. Che, dopo aver lasciato il gruppo di famiglia, fa la consulente aziendale. Un’altra che, dunque, per tradizione e per mestiere sta dalla parte delle imprese. Ma, proprio per questo, è preoccupata per i troppi errori commessi dagli imprenditori.
Perché, da un lato, il padronato si lamenta per la difficoltà nel reperire manodopera qualificata. Poi, però, crea le condizioni per far fuggire i propri dipendenti che hanno accumulato esperienza e professionalità.
Difficile sostenere che un cinquantenne, in azienda magari da più di 20 anni, non abbia voglia di lavorare. E gli over 50 rappresentano un quinto delle dimissioni totali nella zona della Romagna presa in esame. Ma il trend è simile ovunque. L’insoddisfazione – spiega Amadori – è però molto più diffusa. E chi non se ne va, resta ma riducendo al minimo l’impegno lavorativo.
A grandi linee si può ritenere che a dimettersi siano i migliori, con altre proposte di lavoro migliorative, mentre chi non ha mercato professionale si accuccia in azienda dedicando l’orario di lavoro ad organizzare le partite di calcetto, le cene con le amiche, i gruppi scolastici dei figli.
Eppure dagli imprenditori arrivano solo lamentele, mai proposte per invertire la tendenza. La meritocrazia non interessa, il coinvolgimento nelle scelte neppure, le retribuzioni non seguono il ritmo dell’inflazione, i tempi di lavoro non si conciliano con quelli della vita. Ed allora Amadori, da consulente, prova a delineare alcuni interventi che potrebbero migliorare la situazione:
“Il welfare aziendale basato sulle reali necessità dei dipendenti, aiuto nella gestione dei figli, centri estivi di qualità a prezzi agevolati per quando i bambini sono a casa da scuola, coperture assicurative sanitarie, borse di studio per i ragazzi che frequentano l’università. Sono anche questi strumenti che accrescono i sentimento di appartenenza all’azienda”.
Troppo rivoluzionari per gli imprenditori italiani?