Lao Tze (o Lao Tzu, che con la traslitterazione dal cinese non ci si capisce più un accidente…) elogia la Gentilezza. La definisce come virtù fondamentale sotto molti punti di vista.
“La gentilezza nelle parole crea confidenza. Nel pensiero crea profondità. Nel dare crea amore”.
Bello. E, in apparenza, una di quelle frasi, aforismi, perfetti per i baci Perugina. Roba da fidanzatini di Peynet. Melensi.. da crisi iperglicemica.
Ma “gentilezza”, in cinese, è rappresentata con il carattere Shun. L’ideogramma che è stilizzazione di una foglia.
La foglia è leggera. Mi viene, spontaneamente, da pensare ad una foglia di ginkgo biloba con la caratteristica forma imitata nei ventagli in uso in Oriente. Il vento la trasporta, senza sforzo alcuno da parte sua. Vi si abbandona. E così supera ogni ostacolo. Segue il suo destino. Senza opporre alcuna resistenza.
È un’immagine di quello che, con Nietzsche, potremmo chiamare Amor Fati. E che, in certo qual modo, nella nostra cultura deriva dallo Stoicismo. Ne parla spesso Seneca, in quel manuale pratico di vita e meditazione stoica che sono le sue Lettere a Lucilio.
Vi è, però, una differenza profonda. In Lao Tzu l’amore per il proprio destino non ha alcuna venatura titanica. Nessuna sfumatura eroica. E tragica. Non per nulla il concetto di tragedia, e la sua rappresentazione teatrale, è completamente assente nella cultura cinese. E in quella giapponese che ne deriva. Mentre è un pilastro della nostra. Dai greci in poi.
La visione Taoista è connotata dalla leggerezza. La foglia trasportata dal vento. L’uomo che si abbandona al suo destino.
Non è, come dicevo, una rappresentazione di forza e di lotta. È immagine lieve. Delicata e…gentile.
Gentilezza nelle parole. Che è l’opposto della dialettica conflittuale. Della quale, pure, nella Cina classica vi erano scuole e maestri. Come spiega Marcel Granet nella sua “Storia del pensiero cinese classico”. La gentilezza permette di superare il dualismo dialettico. Si genera confidenza. Ovvero i due divengono uno. La comunicazione è essenziale. Da cuore a cuore, verrebbe da dire. Senza alcuna venatura sentimentale e sdolcinata.
Gentilezza nel pensiero. Che diviene…profondità. La foglia, leggera, supera le barriere irte di concetti astratti. Discende, seguendo serena il suo destino, negli abissi dell’anima. Emozioni, sentimenti, passioni, turbamenti…tutto attraversa. Nulla è di ostacolo.
E, infine, la capacità di donare. E, soprattutto, donarsi. Che è Amore. Un sentimento, un pensiero…gentile. L’abbandono. Il donare senza aspettarsi nulla in cambio. Che rende felice e sereno chi dona. E trasmette la gioia a chi riceve.
Non dobbiamo, però, pensare che un concetto come questo, la gentilezza di Lao Tzu, sia emblematico di una civiltà molle. Raffinata, ma svirilizzata. Che è un po’, siamo sinceri, la visione che noi (cosiddetti) occidentali abbiamo dell’Oriente. Sia quando lo disprezziamo, con rozza ignoranza da colonialisti. Sia quando ce ne infatuiamo. Nelle parodie New Age.
La gentilezza è forza. Una forza che non necessita di esibizione muscolare di qualsivoglia tipo. È come il ferro dolce, che taglia meglio, più affilato dell’acciaio. Ma resta più morbido, elastico. Dolce, appunto.
La gentilezza si incarna nell’immagine del generale che guida le armate reggendo non la spada o lo scettro, ma un ventaglio.
È il non opporsi. Il non contrapporre brutalità a brutalità. Che non rende inermi. Al contrario, disarma completamente l’aggressore.
Infine, la virtù della gentilezza è rappresentata dall’Ikebana giapponese. L’arte di disporre, armonicamente, i fiori. Arte elegante, delicata. Appunto gentile. Il vero samurai, per essere perfetto, doveva padroneggiarla quanto l’arte della spada…