Tra il 2016 e il 2017 Starbucks approdò in Italia, aprendo il primo punto vendita a Milano dopo averne già diffusi venticinquemila in 70 paesi del mondo, con 132 milioni di nuovi clienti e 2,7 miliardi di dollari di utile netto. Al timore per l’invasione e per il sacrilegio commesso con le sue 30 miscele di caffè nei confronti del nostro espresso e della moka, si accompagnarono le consuete e inevitabili lusinghe di Howard Schultz, l’amministratore delegato, che prometteva centinaia di assunzioni con stipendi più alti della media, palesando sorpresa e incomprensione per le polemiche sorte.

Erano passati 5 anni da quando la catena era apparsa per la prima volta in Europa e, nel mondo, si contavano poco meno di 20.000 negozi.
La situazione ricordava molto da vicino quella di esattamente 20 anni prima, quando per l’apertura del primo locale italiano di McDonald’s a Roma – niente meno che in Piazza di Spagna – si era sollevata una mobilitazione animata da vip e big di varia estrazione come Valentino, Renzo Arbore, Giorgio Bracardi e Claudio Villa. Da subito il colosso degli archi, come sempre ha fatto, adattò abilmente il proprio format alla location italiana, affiancando ai tradizionali hamburger, patatine e milkshake ben 36 tipi di insalate. Questa capacità di affiancare business spregiudicato e strizzate d’occhio a tradizioni locali e valori morali resta l’accoppiata vincente di tutti i grandi franchising e catene di distribuzione.
Quando Starbucks doveva ancora arrivare, McDonald’s in Italia contava già più di 500 ristoranti, 20.000 dipendenti, 200 milioni di panini serviti ogni anno: ma, attenzione, dichiarava anche un 80% di fornitori italiani: l’indotto conta. E però in quegli anni si consumava un nuovo scontro tra Roberto Masi, amministratore delegato italiano, e il sindaco di Firenze Dario Nardella, che si opponeva fieramente all’apertura di un nuovo locale in Piazza Duomo.
Le polemiche, insomma, non finiscono mai. Nel 2019 Repubblica ha avviato una campagna contro l’apertura di un McDonald’s alle Terme di Caracalla. Un’altra querelle si è addirittura consumata nel collegio cardinalizio, diviso tra favorevoli e contrari all’apertura di un locale in un palazzo capitolino residenza di diversi porporati. E però, sempre nella logica di sposare carità e marketing, un altro locale aperto in sordina nei pressi del colonnato di San Pietro ha regalato 1.000 pasti ogni lunedì ai clochard che affollano la zona in cerca di elemosina dai turisti; il locale, va precisato, occupa 500 metri quadrati per un affitto mensile di 30000 euro.
Conviene andarsi a rivedere il film “The founder” con Michael Keaton, che spiega in maniera molto attendibile quale sia l’idea originaria e ancora oggi praticata nel colosso del panino. Le proteste sono legittime, così come è sacrosanta la difesa degli interessi, delle identità e delle tradizioni, ma ciò che bisogna evitare è la chiacchiera fine a se stessa.
Non si possono fronteggiare multinazionali che perseguono strategie meditate con straordinaria tenacia animando crociate che durano lo spazio di un mattino, come quella della legge per salvare la “grande bellezza” (citiamo da un vecchio titolo di Repubblica) o gli scontri di piazza e i tentativi di occupazione contro l’apertura di Burger King nell’università a Torino, che ha visto allineati collettivi studenteschi di destra e di sinistra, assieme a professori e genitori dei ragazzi delle scuole medie preoccupati per la educazione alimentare dei figli.
In alcuni casi le icone dell’esportazione planetaria hanno subito il logorio del tempo e, per esempio, da tre anni la bambola Barbie ha conosciuto un calo di vendite, dopo ben 58 anni di crescite consecutive.
In altri bisogna comprendere che multinazionale non significa necessariamente scarsa qualità e perseguimento del lucro senza scrupolo: basti l’esempio di Ingvar Kamprad, il fondatore di Ikea scomparso nel 2018, autore di una rivoluzione del mobile di design alla portata di tutti che è stata un fattore di progresso estetico e di democratizzazione del gusto non trascurabile, una sorta di utopia concretizzata e canonizzata dal museo che in Svezia gli è stato dedicato.
È ormai ben chiaro che i giganti dalla cui minaccia dobbiamo oggi guardarci sono quelli immateriali, quelli che nelle quotazioni di Wall Street hanno fatto a gara per superare i mille miliardi di quota: competizione da cui, per inciso, è risultata vincitrice a Wall Street Apple, che ha così battuto Amazon, Google e Microsoft.

La pericolosità dei colossi delle reti non sta solo nel loro strapotere finanziario ma nei contenuti dei quali sono portatori: in forma esplicita, cioè mediante ciò che diffondono, ma anche in forma implicita e occulta. È relativamente recente il ritiro di una serie Netflix in Arabia Saudita, concordato dall’azienda che si era eletta a paladina della condivisione, della trasparenza e della circolazione delle idee (questa la trimurti che il fondatore Reed Hastings inserì nel proprio manifesto nel 2009).
Ricordiamo anche che nel 2014 la Sony bloccò l’uscita del film “The interview” dopo un attacco hacker dietro il quale si celavano le minacce della Corea del Nord e che poi diffuse proiettato il film in un numero limitato di sale. Amazon in India ha censurato parti di propri film e spettacoli, mentre la meno nota ma importante Ubisoft, che sviluppa videogame, ha censurato un proprio gioco per compiacere le autorità cinesi. Ancora, Snapchat ha rimosso Al Jazeera dalla versione Saudita di Discover su richiesta del governo di Riad.