Secondo gli studiosi di astronomia vi sono, fuori, dal nostro sistema solare, almeno ventiquattro pianeti abitabili. E dove le condizioni di vita potrebbero, per varie ragioni, essere migliori di quelle che ci offre la nostra Terra.
Notizia scarna e, per altro, non nuova. Tuttavia atta a far volare la fantasia… Altri mondi abitabili. E migliori del nostro… Certo, per le (possibili) condizioni climatiche, secondo la scienza… Ma è inevitabile che da questo, nel nostro immaginario, discenda anche la fantasia di una società, di un modo di vivere migliore. O addirittura perfetto…
Pianeti con un clima sempre mite, roba da fare invidia persino alla California… Una perenne Primavera, come quella che sognò, e dipinse, Sandro Botticelli…
Quindi, il Paradiso. Perché il Paradiso non è che un giardino sempre in fiore, pervaso da profumi, abbacinante per l’intensità e la vivezza dei colori. Un giardino ove è sempre festa, gioco e riso, come vagheggiava Jacopo da Lentini agli albori della nostra lingua. E della nostra poesia.
Un Eden. Non in terra, però. Ma in un altro mondo. Su un altro pianeta.
Talvolta ripenso a quando ci insegnavano che la rappresentazione del Paradiso islamico, come un’oasi ricca di acque e delizie, con le splendide Uri che accudiscono gli eroi, altro non sarebbe che la proiezione dei desideri di un popolo, quello arabo, condannato alla dura vita del deserto. Che il Profeta aveva saputo blandire e sedurre con tali immagini e promesse. E ricordo, anche, il senso di superiorità che traspariva, e ancora traspare, dietro a tali affermazioni.
Ci penso, e mi viene da sorridere con una certa qual amarezza…
Il Paradiso delle Uri, il giardino dell’Eden dove Dante ritrova, finalmente, Beatrice e tante altre rappresentazioni consimili – i Campi Elisi virgiliani, il Regno del Sidh ove passeggiano splendide Signore dai capelli rossi del mito gaelico… – presentano sempre più piani di lettura. Quello letterale, la fiaba, se vogliamo, narrata per tutti. E poi gli altri livelli. L’allegoria. Il gioco dei simboli. Che possono condurre, coloro che non si fermano alla parvenza, verso una diversa dimensione. La dimensione di una esperienza spirituale.
Il Giardino, il profumo e i vividi colori di fiori meravigliosi… le acque pure e cristalline… Il canto melodioso delle stirpi degli uccelli…. Le bellissime donne che danzano sull’erba. L’aria tersa, la luce intensa e soffusa. Persino i cibi deliziosi e le bevande rinfrescanti… Immagini, sensazioni, emozioni che divengono veicolo di un’esperienza spirituale. Che ti trasportano in un altrove che è dimensione immateriale. Interiore. Quello che Dante ancora lui, definisce il senso anagogico della scrittura…
Rozzi? Rozzi siamo, piuttosto, noi. Incapaci, ormai, di concepire una dimensione immateriale. E che quindi, quando sogniamo un Paradiso ove poter essere, finalmente, felici, finiamo col cercarlo, sempre e comunque, su questa terra. Invano. Come è costretto a constatare, amaramente, l’Islandese di Leopardi…
Oppure lo cerchiamo in un altrove certo remoto, ma che riproduca esattamente le condizioni di vita materiali in cui siamo, mentalmente, imprigionati. Un’altra Terra, un altro pianeta. Inseguendo il mito illusorio della felicità materiale. Dell’eterna giovinezza, della salute. Di una, impossibile, immortalità fisica…
Abbiamo, ormai, esaurito la ricerca in questo mondo. Diventato sempre più piccolo ed angusto. E allora sogniamo altri mondi. Altri pianeti.
Mi viene in mente una musica. Una canzone della fine degli anni. ’70. La voce di Eugenio Finardi…
“Extraterrestre portami via/voglio una stella che sia tutta mia /…. Voglio un pianeta su cui ricominciare…”
Alzo lo sguardo al cielo. Guardo le stelle. Sì, lo so. È sciocco. Rozzo… Ma se questo extraterrestre arrivasse davvero…