La società perfetta esiste. Non è solo un sogno dei vecchi utopisti. È qualcosa di reale, concreto. E presente, costantemente, accanto a noi. Il formicaio. L’apiario. Società perfette, appunto. Dove tutto è organizzato. Nulla imprevisto o imprevedibile. I ruoli esattamente definiti. La totale assenza di conflitti interni. Di competizione. L’esistenza scorre su binari sicuri. La stessa morte, in buona sostanza, non esiste. O per lo meno non viene percepita come tale perché la coscienza appartiene al gruppo. Non al singolo esemplare. Non esiste alcun senso di individualità.
Società perfette. Ma sono, appunto, insetti. E noi, come sottolinea Ernst Jünger che del mondo degli insetti si intendeva come pochi, siamo invece mammiferi. E la natura dei mammiferi è quella del branco. O della vita solitaria. Sovente entrambe, come dimostrano i lupi. Non certo, comunque, la perfetta organizzazione delle api. Perché il branco è legami, affetti, amori… Ma, inevitabilmente, anche conflitti, rivalità, competizione. Nel branco tu vedi in nuce ciò che Aristotele definisce come la natura della società umana. Il pòlemos.
È la nostra natura. Se vogliamo, il nostro fato.
Tuttavia periodicamente sogniamo altro. L’organizzazione perfetta. L’assenza di conflitti. La “pace”, divenuta sorta di idolo cui sacrificare ogni cosa.
Finché si sogna, non è un problema. Thomas Moore, Bacon, il nostro Campanella disegnano società perfette. Come formicaii. Ma sono perfettamente coscienti che si tratta di luoghi che non esistono, né mai potranno essere. Utopie, appunto. Le usano come modelli. Per dire a contemporanei e posteri quale, secondo loro, sarebbe la perfezione. Sapendo che non è possibile realizzarla. Figure geometriche pure, che non si trovano in natura.
Il problema comincia quando questa società perfetta si vuole realizzarla davvero. Hic et nunc. Qui e ora. Allora viene Robespierre e tutto quello che ne consegue.
O, peggio, viene la megalopoli. Il formicaio umano. Gigantesco, spersonalizzante. Che, però, non funziona. Perché nonostante tutto gli uomini restano mammiferi. E per di più dotati di un individualismo marcato. Quindi i conflitti non si sopiscono. Anzi. La megalopoli diventa un’immane, pericolosissima jungla. La Jungla d’asfalto, come recita il titolo d’un vecchio film di John Huston, con un cupo Sterling Hayden. E, soprattutto, una, inquietante e conturbante, Marylin Monroe…
Nella Megalopoli moderna la lotta di tutti contro tutti, di biblica memoria, si fa realtà quotidiana. L’assenza di spazio rende cancrenosi i conflitti. Al lupo inquieto o vecchio è possibile scegliere la solitudine del bosco. All’uomo no.
Pure vi sono forze che operano per realizzare nella Megalopoli l’utopia del formicaio. Che usano gli strumenti forniti sempre più copiosi dalla Tecnica per comprimere l’individualismo. Per omologare tutto. La tecnica, l’economia, la scienza. E sopratutto la paura. Che chi detiene certi poteri può inoculare a dosi massicce nelle masse. Costringendole a rinunciare ad ogni libertà. Ad abdicare al pensiero. In nome di una, ipotetica e illusoria, sopravvivenza.
Nell’Heliopolis di Jünger si fronteggiano due Poteri. Il Podestà, che vive blindato in un bunker sotterraneo, e che domina le masse facendo leva sui loro istinti più bassi. Sulle loro paure. Utilizza gli sgherri del capo della polizia, Messer Grande, e il potere della tecnica. La sua Città è cupa, uniforme. Priva di vita e di luce.
All’opposto, il Proconsole. Dalla sua torre luminosa e ariosa, dai terrazzi giardini fioriti, guida una schiera di uomini dotati di senso dell’onore. E capaci, ancora, di vedere la bellezza. La sua Città è elegante, nobile. Un aristocratico castello popolato di dame e cavalieri. Gli ultimi di antiche stirpi.
Lo scontro tra due Utopie. Quella proiettata verso il futuro, che il grande scrittore tedesco, nel 1949, intuiva lucidamente sul punto di inverarsi. E che noi, oggi, purtroppo sperimentiamo ogni giorno di più nella quotidianità.
E quella proiettata nel passato. Ma meglio sarebbe dire in una tradizione antica, e mai completamente dimenticata. Da alcuni, per lo meno. Una comunità di individui. Uniti dal senso del bello e dalla nobiltà del pensare e del sentire. Un Ordine come quelli cavallereschi. Quelli cantati ancora dal Boiardo. E dall’Ariosto “o gran bontà dei cavalieri antichi…”
Due visioni dell’uomo e del mondo antitetiche. Che si fronteggiano da sempre. E che non hanno possibilità di conciliazione. O di compromesso. La scelta è semplice. E radicale. O col Podestà, o col Proconsole.
Oggi il Podestà sembra aver trionfato. Ma noi attendiamo ancora il ritorno del Reggente . Il suo ritorno dal Mar della Sirti e dalle lontane Esperidi. E la restaurazione della libertà e della bellezza.
Detto, facendomi prendere un poco dall’enfasi retorica. Ma che volete… è una giornata grigia di pioggia, su una Città ancora più grigia. E priva di un solo sprazzo di Sole…