Sogniamo da sempre il Paradiso. Il Paradiso in terra, naturalmente. Ed è la nostra condanna. Perché ne siamo stati cacciati. Per le colpe dei nostri progenitori. Che, poi, a ben vedere, sono le nostre colpe.
Cristopher Lasch ha dedicato al tema uno dei suoi saggi più felici. Una delle più radicali e incisive critiche del mito del progresso. Del mito, panglossiano, del migliore dei mondi possibili. Critica tanto più feroce e incisiva perché viene da un pensatore completamente estraneo a qualsivoglia forma di tradizionalismo o, più esattamente, di nostalgia, romantica o ideologica, per il passato. Ché Lasch era, semmai, un “populista” come lui stesso preferiva definirsi. Ricollegandosi a quella che, negli States, è di fatto la terza cultura politica. Accanto a liberal e conservatives.
Da “populista” non anelava ad un qualche ritorno al passato tuttavia rigettava ogni ottimismo progressista. Analizzando, con estrema acribia, il mito del progresso. Nato dalla frattura con la tradizione classica, per la quale il tempo era ciclico. Come si può vedere da Esiodo. Ed anche dalla tradizione Vedica.
È stato il Cristianesimo a spezzare il cerchio. E a condannarci alla visione lineare del tempo.
Perché di una condanna si tratta. Imprigionati nell’illusione che tutto scorra, e nulla mai, ritorni. Che la Storia, con la maiuscola, sia una linea, che fugge verso un remoto orizzonte.
I cristiani, in quell’orizzonte, pensavano ad un altro mondo. Metafisico. Il Paradiso. Termine giunto sino a loro, e quindi a noi, dall’antica Persia. Da Zarathustra. Probabilmente grazie agli ebrei liberati dalla Cattività Babilonese.
Paradiso significa “giardino”. Un luogo di bellezza e delizie. Ove non vi è morte o malattia. La speculazione teologica, però, lo ha reso sempre più astratto. Sino a che non è svanito dalle nostre menti, incapaci di concepire l’intangibile. Ciò che non è peso è misura. Materia..
Ma l’uomo, senza la promessa di un Paradiso spirituale, ha cominciato a sognare un altro Paradiso. Un Paradiso in terra.
All’inizio solo un sogno. O un modello irraggiungibile di perfezione. Poi, però, qualcuno ha preteso di realizzarla questa perfezione. Hic et nunc. Qui e ora. E il sogno si è trasformato in incubo. Anzi, in incubi al plurale. Quelli che, dalla Rivoluzione Francese in poi, hanno tormentato la nostra storia. O meglio storie. Al plurale e con la minuscola.
Inutile far qui il catalogo di tali utopie. Tutte meravigliose in astratto. E tragiche nella realtà.
La Globalizzazione sembrava esserne il portato ultimo. Un mondo senza conflitti. Senza differenze. Un solo modello universale di uomo. La Fine della Storia, secondo Fukuyama.
In realtà un’altra declinazione dell’incubo. Che ha preparato la strada a quello che stiamo vivendo. L’utopia della vita eterna. Della salute perfetta. Qui, sulla terra. L’utopia della paura. La più triste e squallida di tutte. Perché non anela ad una qualche perfezione, sociale, razziale, economica. Solo ad un permanere perenne in un’esistenza larvale. Depauperata di ogni fine. Di ogni sogno.
Il nuovo Paradiso in terra non è adorno di fiori. Non è luogo di piaceri e bellezza. È asettico. Sterilizzato. È la solitudine e la fine di ogni relazione sociale.
Non è, per ricorrere al mito zoroastriano, il Giardino di Ahura Mazda.
È l’inferno di Angra Manju. Il Signore Oscuro.