“Ormai non ci resta che il vino…” mi dice una collega uscendo da scuola. Ho l’impressione che, dicendolo, sorrida. Solo l’impressione, per via della mascherina imposta in modo sempre più assurdo e protervo dai dittatorelli autoproclamatisi Governatori… Gli occhi, comunque, sorridono.
Già, il vino. Il grande consolatore, per generazioni, dei dolori e delle miserie umane. Il vino che il professor Carducci beveva per ingannare il tempo che fugge inesorabile. Imitando, nel gesto come nella poesia, il suo amato modello. Orazio.
I poeti hanno sempre cantato il vino. Per paradosso, dopo i greci e i latini, soprattutto gli arabi, i persiani e i turchi. Ovvero i poeti delle tre grandi culture del mondo islamico. E, com’è noto, l’islam vieta il vino. O per lo meno lo sconsiglia con molta decisione, visto che le scuole dei dottori della legge, gli üləma, su questo non sono concordi. D’altro canto la religione del Profeta presenta molte sfaccettature. Molti volti.
Comunque, da tale proibizione i poeti si sono, sempre, ben poco fatti condizionare. Se fosse stato diversamente, se fossero stati dei rigidi salafiti o wahabbiti, non solo non avrebbero cantato il vino. Non avrebbero mai scritto le loro liriche, visto che Mohamed anche sulla poesia avanzava non poche perplessità. E noi oggi non avremmo Omar Kayyam, Hafiiz, Rumi… Avremmo perso davvero molto.
Lo so, sono storie che ho già raccontato. Su cui torno periodicamente. Ma le cose, gli oggetti, le memorie di una vita sono, in fondo, sempre le stesse. Diverso può essere l’uso che se ne fa… Come il vino. Bevanda dell’oblio e dell’abruttimento in un’osteria avvolta nelle nebbie della laguna… O bevanda dell’estasi. Brillante per il sole. Un veicolo, allora. Una mappa di viaggio…
E infatti, nella poesia il vino ha, spesso, una funzione simbolica. Di veicolo. Ha a che fare con la conoscenza. Non quella erudita, dottrinaria. La conoscenza mistica. Che si raggiunge attraverso l’estasi. L’enthusiasmos, come lo chiamavano i greci.
Alla fine sempre lì devo tornare. Ai greci ed ai loro miti. Una fissazione? Probabile. Ho una certa età, e ormai certe passioni, certe idee fisse, se vogliamo, sono parte di me. Sono diventate organiche. Comunque, non credo sia errato dire che, in fondo in fondo, tutta la nostra cultura, tutta la nostra civiltà deve molto, se non tutto, a quello che hanno scritto e fatto i greci antichi… Insomma Platone, Aristotele, Alceo, Saffo, Tucidide, i grandi Tragici… Quello che è venuto dopo è… commento. Brillante, geniale, raffinato. Ma commento.
Il vino nel mito è legato a Dyoniso. È lui, il figlio di Zeus e Semele che porta la vite dall’India. O, più probabilmente, dal Caucaso. E d è col succo fermentato della vite che si raggiunge l’estasi. La comunione col Dio. L’ingresso nel suo Giardino. Il Cristianesimo ne ha fatto, non a caso, uno dei due elementi centrali della sua Comunione.
Ma torniamo alla frase buttata lì dalla mia collega. Forse perché sa che sono veneto, e i veneti hanno una certa fama… Ma forse perché il vino piace anche a lei, come ho potuto constatare vedendola ordinare un prosecco e non il canonico, qui a Roma, caffè…
“Non ci resta che il vino…” un desiderio di evasione. Forse di oblio di una realtà, quella che ci circonda, sempre più triste. E trista. Come i compagni di Ulisse, stanchi di guerra e mare, nel paese dei lotofagi..
Tuttavia c’è qualcosa di più in quella frase. Almeno per me. Il desiderio di scoprire, in qualche modo, un’altra dimensione. Un’altra terra. Pura, incontaminata. Che non è un paradiso artificiale, indotto dall’alcol o dalle droghe. Quello lasciamolo ai disperati, autentici o, più spesso, atteggiati. Come Bukovski. Che però non parla di vino, ma di alcol. Che è cosa assai diversa.
Il vino è una chiave, che apre le porte di quell’altrove dove il poeta può vedere realizzato il suo sogno di bellezza. Il Giardino di Dyoniso. Quello dipinto da Botticelli nella Primavera. Il vino è simbolo dell’ebrezza che libera dalla prigionia del corpo. E dalle sue paure. Portando il dono dell’immortalità. Quella dello Spirito, intendo. Perché se cercate l’immortalità fisica lasciate perdere. Non ordinate un calice di Barolo. Ascoltate Crisanti e Burioni, scaricate l’App. Immuni e mettete le mascherine… La vostra, personale, utopia evidentemente ha il sapore acre di una corsia d’ospedale…