L’utopia viene sempre rappresentata come una Città. L’isola della Nuova Atlantide. La Città del Sole. Un luogo stabile, comunque. Raccolto. Che infonde, a priori, un’idea di sicurezza. Perché il sogno degli utopisti è proprio la stabilità. L’equilibrio. La perfezione, se vogliamo. Quella che nasce dall’assenza di incertezza. Di ogni forma di inquietudine.
È per questo, forse, che non ho mai trovato affascinanti le visioni utopistiche. Per quanto architetture perfette, mi hanno sempre trasmesso un’impressione soffocante. Aria chiusa. Mancanza di spazio. Le loro “città” sono, certo, bellissime. Ma restano, in fondo, prigioni. Dalle quali non puoi evadere. E alle quali ti devi, forzatamente, adattare. Cosciente o incosciente. Una sorta di Truman Show filosofico…
Però, leggendo Bruce Chatwin – altra delle mie ossessioni personali – ho scoperto che, in fondo, c’è, o meglio ci potrebbe essere una diversa declinazione dell’Utopia. Non un “luogo che non c’è”, ma l’assenza di ogni luogo. O meglio di un qualsiasi luogo stabile. Di un punto fermo cinto da mura.
Un libro di scritti di Chatwin si intitola, non a caso, l’Alternativa Nomade. Scelta felice. Tuttavia potrebbe anche intitolati l’Utopia Nomade. Perché lo scrittore inglese descrive, a ben vedere, un nomadismo ideale. Che non esiste e, forse non è mai esistito. Un sogno. Non una realtà.
La vita dei nomadi è sempre stata dura. E scandita da necessità vitali. Dai ritmi crudeli della natura. Per questo, a partire dal Neolitico, la condizione di vita sedentaria è prevalsa. Per questo i nomadi si sono sempre più ridotti a delle piccole minoranze. Sempre più marginali. Sempre meno influenti nelle vicende storiche. L’impero dei Mongoli, quello che Gengis Khan creò, praticamente dal nulla, nell’arco della sua vita, resta il maggiore esempio di un trionfo dei nomadi sui sedentari. Trionfo effimero. Chè aveva perfettamente ragione quel ministro cinese, quel raffinato e dotto Mandarino che osò dire al barbaro conquistatore:
“Grande Khan, tu puoi conquistare un impero a cavallo. Ma per governarlo devi scendere dal cavallo.”
Marco Polo, quando arrivò alla corte di Qubilai nipote del grande Gengis, trovò che, ormai, i mongoli da quei cavalli erano scesi…
Dunque, l’alternativa nomade di cui parla Chatwin non è qualcosa di reale o, per lo meno, di radicato nella storia. È un sogno. O meglio un’utopia. L’utopia dell’inquietudine. I grandi spazi, interminati, senza limiti né confini. I vasti orizzonti. Che sempre ti sfuggono. Irraggiungibili. Aurore dorate e tramonti di fuoco. La poesia della solitudine. E della libertà. Assoluta. Una libertà che costa, certo. L’utopia di Chatwin non regala certezze. Non infonde comode sicurezze.
Nell’infinito di questo Nomade ideale, il cuore talvolta si spaura. Per dirla ancora con Leopardi. E la mente si interroga. E interroga le stelle del cielo. E la Luna. E gli astri, talvolta, rispondono.
È l’altra Utopia. Strana, certo. Ma in questo mondo, ove sembra che, ormai, tutto ruoti intorno alle sicurezze e, soprattutto, alla sicurezza personale…. in questa società dove si pretende di organizzare e predeterminate tutto con degli oppressivi “protocolli”… in questa folla dominata dalla paura e omologata nell’insipienza…non avrebbe senso inseguire la Città del Sole.
L’isola di Utopia è un atollo instabile, che la corrente oceanica sposta sempre più lontano.
La bellezza è continuare ad inseguirla. Come il Nomade di Chatwin. Che cavalca in solitudine nella steppa. Senza una meta.