Da pochi giorni è autunno. E per una volta non solo astronomico. Anche metereologico. Perché piove. Non di continuo, certo. Ma piove con notevole frequenza. E non solo rovesci improvvisi, con gocce grandi che rapidamente allagano le strade di una città dove, troppo impegnati a combattere il fantasma del Covid, ci si è completamente dimenticati di sturare i tombini dalle foglie cadute… Vi è, persistente e insinuante, anche una pioggerella fina. Che cade fitta fitta, e ti impregna i vestiti, con una prima sensazione di freddo che ti giunge sin nelle ossa…
Comunque la pioggia è la benvenuta, dopo un’estate arida. Arida in tutti i sensi. Perché particolarmente siccitosa. E perché triste. Squallida. Come bruciata dalla paura che ha continuato a serpeggiare tra spiagge, timidi accenni di, sudate, movide, finzione di allegria. Di vacanza. Di normalità.
È come se l’aridità della terra fosse il riflesso di quella interiore degli uomini. L’afa soffocante del senso di claustrofobia diffuso nella società …
Ora, però, è autunno. L’aria è fresca. I pensieri più limpidi. Anche perché torno a pensare. La mia mente si raccoglie sempre più in sé stessa. Come la terra. Che non attrae più l’immaginazione. Che non ti invita ad uscire. Fuori. Dalla tua casa. E dai limiti del tuo corpo…
Pensieri autunnali. Domande che affiorano alla coscienza. Improvvise. Come scogli a pelo d’acqua. Ti possono far naufragare. Od offrire un qualche appiglio. Transitorio, certo. Eppure… Di una certa, rocciosa, solidità.
Mi domando dove sto andando. Cosa sto cercando. Ammesso, e non concesso, che stia ancora cercando qualcosa. No, non bilanci. Non ho tempo, né voglia per questo. Solo la domanda: Che ci faccio qui? Che è poi il titolo di una raccolta di scritti di Bruce Chatwin. Il cantore dell’alternativa nomade. Degli spazi illimitati. Degli orizzonti infiniti…
Un vagare senza meta. Almeno in apparenza. Tuttavia è proprio questo, forse, che ti può condurre all’Isola che non c’è. Perché finché ti prefiggi degli obiettivi resti, comunque, imprigionato nel presente. E nella sua miseria. L’ordinario ti condiziona. Ti impedisce di guardare oltre l’ultimo orizzonte. E questo genera angoscia. Come ben aveva intuito Leopardi. Ancora e sempre lui… E per andare oltre quel limite non c’è che la capacità di “fingere” nel pensiero. E “fingo”, in latino, vuol dire immaginare, ma anche inventare, plasmare… Persino cambiare.
Ed è solo “fingendo” dunque che si può raggiungere l’altrove di cui parla Chatwin. Il paese d’Utopia. Che non va ricercato nella realtà ordinaria. O meglio in quella che siamo usi così chiamare. E considerare. Se lo si fa si generano… mostri. E, purtroppo lo si è fatto anche troppo spesso.
La ricerca, la navigazione, il viaggio deve avvenire nella… finzione. Perché l’isola non è uno scoglio. E fluttua sempre più lontano. Approdo Irraggiungibile.