L’ottimismo sarà anche il profumo della vita, ma di fronte al dato di realtà il profumo rischia di trasformarsi in cattivo odore. Dunque va benissimo che Sua Divinità ed il ministro Giorgetti insistano a raccontare meraviglie sulla ripresa in atto in Italia; va benissimo che il presidente di Confindustria assicuri che nei prossimi mesi Pil e produzione industriale avranno crescite record. Poi, però, arrivano i dati del settore tessile-abbigliamento e l’entusiasmo si riduce. Di molto.
È vero, il peso del comparto moda sul Pil italiano non ha nulla a che fare con quello dell’epoca delle filande, della seta. Ormai supera di poco l’1%. Ed il 40% delle imprese è controllato da investitori stranieri. Però l’importanza della moda, per l’Italia, andava oltre l’aspetto meramente finanziario ed economico per assumere quello di ambasciatrice del Made in Italy, del gusto italiano. Era una dei pochi esempi positivi del soft power italiano.

Ora non più. Il settore è in crisi e non si sta riprendendo neppure adesso che gli altri comparti sono ripartiti dopo i disastri provocati dalla banda Speranza. Prima c’era l’alibi: il confinamento agli arresti domiciliari di massa non invogliava certo a rinnovare il guardaroba. Ora che si ritorna a vivere all’esterno, però, il boom dell’abbigliamento non si è visto.
Però non si sono viste neppure autocritiche nel settore. Non si sono sentite parole sui prezzi eccessivamente elevati, sulla mancanza di creatività, sui guasti che il politicamente corretto ha prodotto anche sull’abbigliamento. Non si sono scatenati dibattiti sul falso Made in Italy consentito da leggi volute da industriali ottusi e che si sono rivelate un suicidio imprenditoriale.
Ci si è limitati a protestare, a bassa voce, per la concorrenza sleale dei produttori cinesi in Italia. A bassa voce perché il politicamente corretto impedisce di lamentarsi degli stranieri. Anzi, consiglia di imitarli nella mancanza di tutela dei lavoratori.
E poi la promozione attraverso i soliti servizi poco credibili sui Tg nazionali e sulle testate degli amici degli amici. Non si sono accorti, gli imprenditori, che il loro sistema di relazioni non interessa più nessuno. Gli ex grandi giornali sono diventati piccoli ma, soprattutto, per nulla in grado di influenzare i consumi. Sfilate per i soliti noti, nella speranza che il pubblico di lettori e telespettatori si entusiasmi per aver scorto la modella X, l’attore Y, il cantante Z.
Non funziona più.

Il pubblico è attento ai rapporti con l’ambiente e si continua ad importare lana dai luoghi più lontani del mondo mentre la lana italiana viene distrutta o sotterrata per ridurre i costi di smaltimento. Se si pensa all’abbigliamento alpino si immaginano i capi sudtirolesi, non quelli italiani che resistono solo in ambito sportivo. La Cina rilancia gli abbigliamenti tradizionali dei vari territori; la Corea del Nord rende obbligatori i vestiti in stile locale; l’Italia, che aveva una ricchissima varietà di abiti tradizionali locali, li ha dimenticati per insistere con il cosmopolitismo privo di ogni tipicità. Un abito italiano uguale ad uno statunitense che, però, costa meno. Scelte legittime. Ma se non funzionano..