“Io gli impedirei di salire. Li confinerei in pianura”. Va bene, i social non sono palestre di discussione profonda ed illuminata. Va bene, dopo i disastri morali e mentali provocati dalla pessima gestione della pandemia da parte della banda Speranza la capacità di sopportazione delle persone è ridotta al lumicino e l’esasperazione è sempre pronta ad esplodere.
Però nella dichiarazione di una montanara a proposito dei turisti “cittadini” c’è molto di più. Ci sono due mondi che fanno sempre più fatica ad incontrarsi, a comprendersi.

La montagna non è un parco di divertimenti su un piano inclinato. È il territorio dove ci sono persone che vivono e che lavorano. Dunque meritano rispetto. Ed hanno il sacrosanto diritto di conservare le proprie tradizioni ed il proprio stile di vita, anche se non piace al turista occasionale che sale sulle Terre Alte per fuggire dal caldo della città.
Tutto vero, tutto giusto.
Ma con delle conseguenze. La prima è che chi vuole confinare in pianura i cittadini, chi pretende il rispetto del proprio modo di vita, dovrebbe poi avere il buon gusto di tacere di fronte alle proteste di chi, in pianura ed in città, non vuole essere invaso da clandestini che non rispettano lo stile di vita degli indigeni urbani. Fare gli accoglienti in casa d’altri non è il massimo.

La seconda conseguenza è economica. Si ha il sacrosanto diritto di rifiutare il turismo di massa. Anzi, forse sarebbe un dovere. Però non si può pretendere, dopo, di ottenere dalle casse pubbliche i mancati introiti legati al turismo.
E, sempre per restare in ambito economico, si può stabilire prezzi elevati per le produzioni realizzate in montagna, ma senza protestare se ci si ritrova con prodotti invenduti. E senza chiedere sussidi per i propri errori di politica commerciale. Perché la povertà, in città, è aumentata e non tutti possono permettersi di pagare cifre elevate per la qualità. A costo di rinunciare alla qualità.
Se poi i prezzi eccessivi non sono legati a produzioni locali – che scontano una serie di penalizzazioni varie, dalla logistica al riscaldamento – ma alla commercializzazione di articoli prodotti altrove ed acquistabili ovunque, allora le giustificazioni vengono a mancare.

O si sceglie, legittimamente, una vita di autosussistenza, oppure si comprende che le cavallette che arrivano la domenica a rovinare prati e sentieri sono i destinatari dei formaggi montani, dei prosciutti, del pane, della frutta, del vino. Ovviamente questo non giustifica i comportamenti incivili, non sono i soldi a determinare una cultura. Ma far pagare una scarpa Made in China il doppio di quanto costi in un negozio cittadino non è una dimostrazione di tutela della cultura montana.