Lucilla Rapetti, Salomone Iona e Jona Clava. Imprenditori ebrei nel Monferrato dei Gonzaga, Salomone Belforte & C., Livorno 2022.
Siamo dell’idea che la storia del capitalismo vada in gran parte rivista e riscritta, con buona pace di Max Weber, che nel suo importante saggio su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, nel lontano 1904-1905 individuò appunto nell’etica calvinista e puritana la genesi dello spirito capitalistico. A suo dire la tradizione protestante, nelle sue diverse forme, mette radicalmente in dubbio la possibilità di giungere alla salvezza attraverso le opere, in quanto essa dipende esclusivamente dalla sovrana grazia divina. Il dogma della predestinazione consente di stabilire in partenza chi sarà destinato alla vita eterna e chi invece dovrà soccombere.
Non c’è azione che tenga. In questa prospettiva, il successo nell’attività economica è segno della grazia divina e quindi una garanzia di elezione, un’arra di salvezza. La coscienza di godere della grazia di Dio e di essere da Lui benedetto dà modo all’imprenditore borghese di perseguire senza remore tutti gli interessi lucrativi che desidera. Il lavoro sociale del calvinista nel mondo, compreso quello professionale, è semplicemente lavoro ad maiorem Dei gloriam. Ed è doveroso ritenere se stessi come eletti.
Se Lutero prometteva grazia agli umili peccatori, il calvinismo educava «quei santi sicuri di sé, che ritroviamo nei mercati puritani, duri come l’acciaio». In altre parole, mentre nel Medioevo l’uomo che viveva in senso rigorosamente religioso era il monaco, che l’ascesi induceva a rifuggire dal mondo, il calvinismo, forte della sua fede nella vita professionale, riorientava l’ascesi in tutt’altra direzione. Così «al posto della classe dei monaci al di fuori o al di sopra del mondo – scrive Weber – subentrava un’aristocrazia spirituale dei santi nel mondo, predestinati da Dio». E votati al lavoro professionale, razionalmente praticato in vista del profitto e del successo economico, concepito come dovere del singolo individuo.
Ora, è indubbio che ci sia del vero in questa tesi, ma studi più recenti hanno dimostrato che le origini del capitalismo sono anteriori al calvinismo. Prendiamo, ad esempio, Murray Newton Rothbard, il quale nel primo volume della sua monumentale storia del pensiero economico (Economic Thought Before Adam Smith), uscita postuma nel 1995, rivalutò il Medioevo cattolico come un periodo ricco e creativo della storia europea. La teoria e la pratica del libero mercato infatti sono germogliate nel mondo cattolico e non in quello protestante. Lungi dall’essere dei mistici che non capivano nulla d’economia, i filosofi scolastici erano degli economisti di notevole valore, che anticiparono alcune acquisizioni teoriche fondamentali come la concezione soggettiva del valore.
Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino, così come gli scolastici successivi, pensavano infatti che il giusto prezzo di un bene non dipendesse da qualche sua qualità intrinseca, ma fosse quello determinato dalla communis opinio o dalla commune estimatione, cioè dal mercato. E se fu il francescano Pietro Giovanni Olivi ad enunciare per primo la teoria soggettiva del valore, a San Bernardino di Siena, che la riportò in auge, si deve una magistrale analisi delle virtù e della funzione dell’imprenditore.
Il capitalismo iniziò nei comuni cattolici dell’Italia centro-settentrionale, dove vennero infatti inventate le nuove tecniche finanziarie e commerciali quali la banca e l’impresa, la lettera di cambio, la ragioneria, la partita doppia: novità che i teologi scolastici cercarono via via di comprendere e giustificare. Rothbard ricorda che la prima classica formula pro-capitalista, «In nome di Dio e del profitto», si ritrova in un libro contabile fiorentino del 1253, e che ancora nel Cinquecento la cattolica città di Anversa era il maggior centro commerciale e finanziario.
«Tutto quello che si fa tra i mortali – scrive Poggio Bracciolini nel De Avaricia -, qualunque rischio si corra, mira a questo, a ricavarne oro e argento: il che non mi sembra menomamente degno di biasimo. Infatti il denaro è molto utile ai bisogni comuni e alla vita civile, ed Aristotele afferma che fu necessario adottarlo perché potessero aver luogo i commerci e gli scambi tra gli uomini. Se incrimini il desiderio che ne abbiamo, incrimini anche gli altri appetiti che la natura stessa ci ha dato: infatti, perché è meno lecito desiderare l’oro e l’argento che non le bevande e i cibi o le altre cose con cui ci manteniamo in vita?». E conclude: «E i continenti, gli stati, le province, i regni, che altro sono, se ben guardi se non una fucina di pubblica avarizia? la quale essendo esercitata per comune decisione trae la propria legalità dal pubblico consenso?».
Ma è soprattutto Leon Battista Alberti a dare per scontata l’assunzione della ricchezza a paradigma primario dei valori sociali, e a fare riferimento ad un concetto monetizzato del lavoro. Le idealità che permeano i suoi tre Libri della Famiglia sono quelle più recenti della borghesia fiorentina, la quale, arricchitasi nei traffici mercantili e finanziari, si dedica con cura crescente ad amministrare e a difendere il capitale accumulato investendo ad esempio nelle proprietà terriere, alla ricerca non più dei grossi guadagni, ma della stabilità economica. L’Alberti, lungi dal rinnegare l’importanza dello spirito commerciale nel determinare l’accumulo della ricchezza, è convinto che la mercatura sia l’unica strada per far denaro. La giustificazione del guadagno è nella qualità di “servizio” attribuita all’operato del mercante. «In questo modo adunque vendi non la roba, ma la fatica tua: per la roba rimane a te commutato il danaio: per la fatica ricevi il soprapagato». Vale a dire l’interesse, peraltro giustificato dal rischio connesso al mestiere e all’investimento del capitale. La fatica, poi, non è tanto quella puramente inerente la transazione, quanto quella relativa ad una lunga ed accurata preparazione professionale all’esercizio mercantile e all’organizzazione dello stesso. I patrimoni non sono offerti dalla fortuna: ad ogni accumulo è sotteso un preciso disegno, e sono necessari strumenti intellettuali e materiali da acquisirsi prima di tutto attraverso le humanae litterae.
Come si vede, tanti luoghi comuni andrebbero smontati e corretti. E a confermarci nella nostra idea concorre, una volta di più, Lucilla Rapetti, che, nel suo ultimo lavoro, Salomone Iona e Jona Clava. Imprenditori ebrei nel Monferrato dei Gonzaga (Salomone Belforte & C., Livorno 2022), ricostruisce nei dettagli il ruolo fondamentale dei due intraprendenti uomini d’affari nello sviluppo economico del ducato monferrino all’indomani delle guerre di successione che lo avevano interessato nel primo trentennio del Seicento.
Dopo averci dato con L’attività feneratizia ebraica in Monferrato nel secondo Cinquecento (Salomone Belforte Sas, Livorno 2020) un ampio e particolareggiato quadro (in progress) dell’attività feneratizia svolta nel corso del Cinquecento dalle numerose famiglie ebraiche disseminate, con varia fortuna, sull’intero territorio monferrino, la studiosa si concentra qui su due figure di spicco di quel mondo. Salomone Iona e Jona Clava non si limitano a prestar denaro, ma attendono «ai più svariati e complicati affari» (Attilio Milano), acquisendo col tempo un invidiabile status sociale. Non è un caso che i loro aggregati familiari inaugurino l’elenco degli ebrei casalesi censiti nel 1665 e che essi si fregino personalmente del titolo di “Magnifico”, distintivo dei personaggi di alto rango.
I legami familiari hanno una rilevanza tutt’altro che secondaria, non solo perché garantiscono una salutare rete di protezione a prestatori di denaro operanti in partibus infidelium, spesso invisi alla gente del popolo che considera esoso l’interesse more hebraico, e non di rado spremuti, all’occorrenza, dal potere politico, sì anche perché favoriscono la cooperazione e la collaborazione, soprattutto nei casi in cui è necessario disporre di capitali cospicui e operare simultaneamente su fronti diversi.
Salomone e Jona sono cugini e, pur operando in autonomia, quando si associano in vista di una intensa attività mercantile o dell’assunzione, con gestione a proprio rischio, dei principali appalti statali, non esitano a condividere anche l’attività feneratizia, «che assume un marcato aspetto finanziario». Ingenti somme vengono da loro erogate a nobili ed ecclesiastici, non solo di Casale e, per mezzo di intermediari, procuratori e lettere di cambio, intrattengono rapporti con clienti di Genova, Torino, Milano, Pavia, Venezia, Parigi, Lione, a dimostrazione di una capacità operativa ad ampio raggio. Oltre a concedere mutui, accettano cessioni di crediti, forniscono tessuti per il guardaroba del duca e, in via eccezionale, per ingraziarsi personalità di rango, effettuano perfino prestiti pecuniari senza interesse. Per quanto concerne Jona Clava, meritano di essere segnalate le modalità del divorzio consensuale dalla moglie Ricca, la quale non gli ha dato figli e pertanto acconsente che egli sposi un’altra donna, a patto di avere una casa per sé e di poter mantenere un onorevole tenore di vita. Il marito s’impegna a versarle duecento ducatoni l’anno, assegnandole inoltre una nutrita serie di beni tra vesti, biancheria di casa, stoviglie, gioielli e altre suppellettili domestiche, e «promette riverire et honorare» la donna «come vera sua moglie». Altrettanto promette Ricca nei suoi riguardi. Un esempio di grande civiltà.
I due cugini partecipano insieme a varie fiere, investendo le cospicue somme raggranellate con l’attività bancaria nei più disparati generi di prodotti. Una folta messe di lettere ne attesta la sagacia affaristica nell’ambito dell’import-export, l’abilità nel «giostrare affari e scambi di favore», destreggiandosi fra ritardi, insolvenze, disguidi e raggiri: inevitabili inconvenienti del mestiere. Profittando del fatto che da qualche tempo nel Monferrato è diffusa la manifattura serica e, più in genere, l’arte della tessitura, i due soci, valendosi di filiali e di emissari esteri, trafficano in drappi di seta, in panni di «bombasina e fustagno», ricorrendo ora alla navigazione fluviale, ora ai mulattieri.
Jona nel 1665 invia al merciaio milanese Carlo Fagnano centocinquanta doppie d’Italia da «implicare in emptione di tanti cochetti, ò siano galette da far seta» e nel 1668 gli affida ottomila fiorini da impiegare in emptione setæ: a metà lucri et damni. Da Lione Salomone e Jona fanno arrivare cappelli da adornare con le piume fabbricate in Casale, nonché alcune balle e risme di carta da rivendere in città o da commercializzare a Venezia, carte da gioco, tarocchi, cera. Ma trattano pure lo smercio di riso, di zafferano, ed eccezionalmente di preziosi e di quadri. Dalla Riviera importano palme e cedri. Pani di piombo, carichi di manganese, partite di legname richiedono un’attenta organizzazione del loro trasporto. Per necessità mercantili, a volte i due cugini si prestano anche a fare i cambiavalute.
Nel 1647 costituiscono una società mista per la lavorazione della cera con un fondighiero genovese che ha bottega in Casale; altrettanto fanno per la commercializzazione e la lavorazione dei corami, praticando anche, all’occorrenza, l’attività soccidaria. Jona, poi, nel 1659, stipula un contratto societario con lo stator Domenico Raitero di San Salvatore, cui fornisce provvisoriamente i denari per l’acquisto butallorum centum viginti vini nigri puri boni da conservare in capaci vasellami nel convento dei Cappuccini del luogo per venderlo a tempo debito, dividendo ovviamente l’utile. Nello stesso anno, quale impresarium regalium impresarum del Monferrato loca l’affittamento de transitu sive passaggio portus super flumine Padi. Più numerosi ancora sono però gli affittamenti colonici di alcuni fondi agrari acquistati dai due soci. I quali, costituendo a volte società miste con fornitori cristiani, si procacciano vari appalti di provvisione: ad esempio, quello della legna per le caserme, i presidi di guardia, la cittadella e il castrum di Casale. O quelli del salnitro, del fieno, delle vettovaglie (dal formaggio – piacentino, maggengo, quartirolo – alla carne, dal sale al riso) per i militari in servizio in città.
Particolarmente redditizio è l’affittamento, più volte reiterato, di tutti i dazi delle Regie Imprese dello Stato di Monferrato, sulla base di trentamila ducatoni, con l’aggiunta delle carte da gioco, del tabacco e del pedaggio di Moncalvo. L’affittamento riguardava anche la condotta e il commercio del sale. Il 24 novembre 1660 a Salomone e Jona viene quindi assegnata anche l’esazione dell’Ordinario Tasso di Cittadella e Caserme del Monferrato. La professionalità dei due pertinaci imprenditori viene riconosciuta in vario modo dai Gonzaga: il 20 ottobre 1646 la duchessa Maria esime Salomone Iona dall’obbligo di portare «il segno solito portarsi dagli Ebrei» e lo autorizza a «camminar di notte per la città senza il lume». Tanto a lui quanto al cugino, per le «benemerenze acquisite con gli appalti statali», viene inoltre concessa, in via del tutto eccezionale, la licenza di acquistare e detenere stabilmente immobili in Statu Montisferrati.
Di essi Lucilla Rapetti ci offre un circostanziato elenco, attingendo, come sempre, dai documenti del Notarile del Monferrato, talora integrati da altri reperiti nell’Archivio di Stato di Torino, sezione Corte. E così procede, implacabilmente o quasi, per pagine e pagine, lasciando parlare – per così dire – gli atti nella loro stringata asciuttezza. La loro eloquenza, a parte il colore (e il sapore) temporale, non è certo quella adorna di lenocini stilistici che può aggradire agli amanti della retorica, ma ha una sua indubbia efficacia. Senza contare che la trascrizione puntuale, in “Appendice” (ma anche qua e là nel vivo del testo), di alcuni documenti preziosi può tornare utile a chi volesse avventurarsi in analoghe ricerche e, magari, approfondire, a parte, alcuni dei punti qui accennati. A noi resta da dire che uno studio come questo ci conforta nell’idea di non cercare lontano i prodromi o le premesse del capitalismo. Che è anch’esso, a voler ironizzare, cosa nostra.