Il principe Sforza Ruspoli è scomparso nei giorni scorsi alla ragguardevole età di 95 anni, ma il suo nome, la sua storia e la sua figura e rimandano a un’epoca ben più antica. Era infatti erede di una delle principali famiglie patrizie romane, la cosiddetta “nobiltà nera”: espressione che nell’errata interpretazione popolare sta per fascista, mentre non ha nulla a che vedere con il Ventennio e identifica invece le famiglie che, alla presa di Porta Pia e all’annessione di Roma nello Stato unitario, listarono a lutto i portoni dei palazzi per esprimere il dissenso da quella che ritenevano un’invasione, un’occupazione arbitraria.
Roma, lo Stato Pontificio, si consideravano un territorio sovrano rispetto al quale l’Italia risorgimentale e sabauda figurava come un violento espansionista. Il paradigma che oggi ci fa considerare sacrosanta la difesa dell’Ucraina dall’aggressione russa.
Sforza Ruspoli interpretava quest’assoluta fedeltà al Papa Re senza alcun timore di apparire anacronistico. Rivendicava anzi con sommesso orgoglio, come un dovere e non come un privilegio, l’appartenenza a quei Marescotti Ruspoli, principi di Cerveteri, che sin dall’anno del Signore 779 avevano offerto al Papa e alla Chiesa appoggio finanziario e militare in diverse, nodali occasioni. Essendo però vissuto nel XX secolo assistette alla contaminazione dei blasoni capitolini con la mondanità e con la modernità: il fratello Alessandro detto Dado, tra gli altri, fu un protagonista del jet set della Dolce Vita. Due personaggi e due caratteri molto diversi, come se si fossero divisi consensualmente i ruoli. Tant’è che, a differenza del fratello, Sforza non amava essere chiamato con il suo vezzeggiativo, Lillio (“Lei si chiama Marco? Io mi chiamo Sforza. È semplice”, mi disse con la solita ironia).
Ebbe una vita ricca che lo rese orfano da piccolo e lo portò a vivere in Sudamerica, a fondare l’Msi come indipendente e a collaborare, quale consigliere comunale, con la Caritas di monsignor Luigi Di Liegro. Ma la grande passione era e restò la campagna. L’agricoltura, praticata in particolare nella tenuta di Vignanello. Animò i Centri di azione agraria e arrivò a fondare un Partito dei contadini, tanto riteneva fosse essenziale il contributo della terra e dei suoi lavoratori allo sviluppo del Paese. Di questa capacità di essere fuori moda e fuori dal tempo, o di “altri tempi”, Sforza Ruspoli dava dimostrazione anche nella vita quotidiana ostentando, se vogliamo usare questo termine per ossimoro, una modestia, una sobrietà e una semplicità adamantine. Chi scrive ricorda personalmente di averlo incontrato a casa sua, nel Palazzo alla Fontanella Borghese, dove era apparecchiata la tavola per la cena, con un piatto di ceramica coperto. Come si usava quando si lasciava la cena agli uomini che rientravano tardi dal lavoro.
Tra le poche concessioni alle cronache mondane, il ballo giovanile con la futura regina Elisabetta II di Inghilterra e, in età già più che matura, il secondo matrimonio con una bella attrice molto più giovane, Maria Pia Giamporcaro: un cognome poi cambiato in Porcaro che dichiara le origini proletarie. La figlia di un ferroviere, che gli diede la figlia Giacinta dopo il primo matrimonio con Domitilla Salviati e le due figlie Claudia e Giada.
Un uomo d’altri tempi. Tempi che non ha senso rimpiangere ma ai quali Sforza Ruspoli aiutava a guardare con rispetto.