Da pochi giorni si è celebrato l’“election day” delle presidenziali statunitensi, senza alcun vincitore certo. Anche se il candidato democratico, Biden, si autoproclama nuovo Presidente e ha già dato via alle proprie iniziative diplomatiche e agli annunci populisti in materia di Covid19, il titolare tuttora in carica, Trump, non accetta la situazione e addirittura presenta ricorso per brogli in molti stati e alla Suprema Corte, rimettendo tutto in discussione e l’esito finale nelle mani del popolo americano.
L’affluenza record al voto, esercitato in gran massa per via postale, ha dato luogo ad uno spoglio che vede Biden in vantaggio sia nel computo totale dei voti, sia nel più importante numero di grandi elettori che ogni stato gli assegna, anche se quelli dove ha vinto sono la minima parte, nonché i più popolosi. Così, rispetto al 2016 Trump avrebbe perso il sostegno di Wisconsin, Michigan, Pennsylvania e Arizona, mentre non sono ancora definitivi a suo favore North Carolina e Georgia.
La lotta, però, prosegue anche sul piano diplomatico internazionale. Se lo sfidante democratico ha già avuto diverse telefonate informali con i principali leader politici europei (Francia, Germania, Regno Unito, Irlanda) per riproporre la tradizionale agenda incentrata sulla stretta relazione transatlantica e sull’alleanza NATO, il Presidente in carica (lo sarà fino al 20 gennaio prossimo) ha inviato il suo Segretario di Stato in missione in Medio Oriente e a Parigi, per rinnovare accordi e status quo frutto della politica estera negli ultimi quattro anni. Ossia, il motivo dell’odio globalizzato verso Trump e che, a ben vedere, è ancora il punto centrale della contesa elettorale e di tutta la politica internazionale planetaria. Perché, piaccia o no, gli States sono ancora lo stato più potente sulla Terra sul piano militare, diplomatico ed economico, e la svolta che verrà dall’esito di questa elezione non potrà essere ignorato da nessuno.
Sarà per questo motivo che i principali mass-media americani (ma a dir a verità di tutta la sfera occidentale) hanno da subito fatto il tifo per il candidato “blu”, violando non solo il diritto alla corretta informazione di tutti i cittadini del mondo, ma anche le regole deontologiche della professione giornalistica, creando di fatto una situazione di confusione generale e di clima da guerra civile, in particolar modo quando si sono arrogati il potere di proclamare il nuovo presidente!
Idem dicasi a proposito delle “big tech” insediate nella mitica Silicon Valley, che addirittura sono arrivate al punto di “bannare” i messaggi elettorali e politici di Trump, ossia del Presidente degli USA, l’uomo più potente sulla Terra, accusandolo di riportare fake news oppure di divulgare contenuti politici non coerenti con le regole della loro community social. Se non fosse un fatto talmente grave, ci sarebbe da ridere a crepapelle. Speriamo che la Giustizia americana provveda a fare chiarezza e sentenza anche su questo delicatissimo aspetto di libertà e democrazia.
Tornando alla contesa elettorale e alle sue conseguenze, è evidente che l’assegnazione della vittoria darà un indirizzo alla direzione di politica estera statunitense nel prossimo quadriennio. Se vincerà, Biden, infatti, il mondo tornerà al solito quadro di multilateralismo organizzato, costruito attorno alle Nazioni Unite nel 1945 dal democratico F.D. Roosevelt e dal sovietico J. Stalin, di cui sono parte attiva la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il WTO, insieme a tutte le altre agenzie “onusiane” che dovrebbero gestire i grandi problemi del pianeta, dalla povertà alla carenza di cibo, dalle migrazioni ai commerci illeciti di persone/armi/droghe, dal “cambiamento climatico” allo sviluppo sociale ed economico dei paesi poveri.
Si riprenderebbe, pertanto , l’agenda politica globalista portata avanti per decenni dalle amministrazioni statunitensi democratiche, anche se recentemente costoro hanno denunciato pubblicamente l’intenzione di non proseguire più il progetto di “esportare la democrazia” ovunque, che è stato motivo di numerose guerre e conflitti diplomatici/politici fra l’Occidente e diversi paesi arretrati nel pianeta.
Non è un caso che proprio Trump abbia, invece, riposto tali propositi nel cassetto, cercando di sviluppare un’azione politica globale meno universalistica e più rivolta a difendere gli interessi degli americani (“America first!”). Per tale motivo è stato accusato di “sovranismo” ed è diventato il leader planetario di questo presunto movimento politico, che ha trovato nel mondo altri complici, leader di importanti paesi strategici quali il Regno Unito, la Russia e il Brasile. Per non parlare della Cina, dell’India, dell’Iran o della Turchia, che invece han continuato la loro tradizionale, antica, millenaria azione politica “pro domo loro”. Presumibilmente, se il tycoon fulvo dovesse essere confermato sulla poltrona di Presidente degli USA, la sua politica estera fatta di accordi bilaterali e interferenze in ogni scenario regionale, per curare gli affari americani piuttosto che intervenire nella veste di poliziotto del mondo, continuerà e avrà effetti inevitabili ai quattro angoli del pianeta.
A dirla tutta, oggi non sembra più realistico il ruolo statunitense di unica superpotenza capace di controllare qualsiasi “affair” nel mondo, sia perché la crisi finanziaria del 2008 ha colpito duro soprattutto da quelle parti, impedendo per esempio di proseguire con la “politica del dollaro” e mettendo in discussione persino la leadership del Dollaro quale moneta di riferimento degli scambi economici e finanziaria globali.
Inoltre, gli stessi USA han dimostrato di non avere più quel margine di potenza militare che garantiva la superiorità su qualsiasi altro rivale, autorizzando così estemporanee guerre “a bassa intensità”, se non operazioni più massicce come per esempio l’ultimo conflitto in Iraq e Afghanistan, che non sono andati come prevedevano i piani militari del Pentagono. Infine, probabilmente gli americani, intendo dire il popolo stesso, sempre più “mixed” e benestante, hanno compreso che interpretare il ruolo di Impero universale e goderne i vantaggi comporta in realtà enormi costi e tantissime grane da gestire.
Sotto questo aspetto, le guerre di G.W.Bush e di Obama, l’attacco alle Twin Towers e il forte indebitamento pubblico statale nei confronti della Cina, devono aver acceso una spia di allarme fra i cittadini statunitensi. Un dubbio che ha portato alla vittoria inaspettata di Trump nel 2016.
Il quale, però, non ha indovinato tutte le mosse. Se sul fronte interno è riuscito a rianimare l’economia e a ridurre la disoccupazione al 3% (ben sotto la soglia “naturale” da manuale), un dato mai riscontrato nella storia americana, riportando in auge i marchi tradizionali del business stelle&strisce nel consesso globale, in questo frangente però non ha brillato.
Le contese commerciali con la Cina hanno prodotto nuovi accordi che, a detta di molti, non sono esattamente il meglio che ci si potesse aspettare. Idem per quanto riguarda i rapporti con l’UE e gli altri tradizionali partner commerciali principali: le misure di contingentamento e dazi imposte a molti prodotti europei di nicchia, seppure giustificate dalla sospensione da parte USA dalle regole commerciali pattizie in essere da alcuni decenni, non hanno migliorato la situazione per entrambi i partner.
I rapporti bilaterali con la Russia sono tornato al “freddo”, nonostante le molte aperture di Putin al nuovo presidente popolare, al punto che l’orso russo ha ricominciato ad allungare gli artigli sia sull’Europa che sui “mari caldi” che nello scenario sempre caldo e strategico del Medio Oriente. Infine, ma non per ultimo, la guerriglia diplomatica intrapresa col Messico e altri importanti stati dell’America Latina non è piaciuta, non ha portato vantaggi a nessuno e ha compromesso la complessa opera messa in atto dalle amministrazioni precedenti dai tempi di Monroe.
Si comprende, quindi, come questa elezione sia “epocale”, perché in ogni caso aprirà il futuro a scenari politici, economici e globali oggi non del tutto prevedibili. In primo luogo, la correttezza della procedura di voto deve essere assoluta: nessuna ombra di broglio o di truffa potrà essere accettata dal resto del mondo, chiunque sarà il vincitore.
Gli Stati Uniti d’America sono il paese democratico con il maggior peso, se non ci fosse trasparenza sulle procedure e sul sistema politico interno, la democrazia semplicemente sparirebbe dalla faccia della Terra. Inoltre, è essenziale che siano rispettate anche le antiche tradizionali regole della politica estera: la corsa a “riconoscere” il nuovo presidente Biden, quando il suo successo è tutt’altro che chiaro e lecito, è qualcosa di ridicolo, che trasforma la più grande democrazia al mondo nel più grande e pericoloso “rough state” in circolazione, oltre ad essere una procedura del tutto fuori luogo.
Infine, che prevalga una agenda o l’altra, il pianeta non riconoscerà più gli Stati Uniti quale unica superpotenza globale e via, via ne prenderà le distanze, se questi non adegueranno la loro politica estera alle reali e sempre più complesse necessità degli uomini nel XXI secolo dell’era cristiana. E questo forse è il vero dubbio che attanaglia tutti e rende l’esito di questa elezione ancora più incerto e difficile. Se lo schema di “velt politik” rispolverato da Trump aveva portato il mondo direttamente alla Prima Guerra Mondiale, quello del multilateralismo posto sotto l’egida di un’organizzazione internazionale suprema depositaria della sovranità assoluta, ossia la solita “agenda Dem”, lo ha portato al secondo conflitto planetario. Serve altro.