Ogni tanto, in queste giornate di vuoto che chiamano vacanze estive, torno ad ascoltare vecchie canzoni. Roba per lo più dimenticata. Roba di quando ero giovane.
Oggi, sotto un cielo nuvoloso, e aspettando la luna piena di agosto, mi è tornato in mente Giorgio Gaber.. Forse perché ne parlavo, pochi giorni fa, al bar, con il mio amico S.
E così mi sono messo a cercare. E ascoltare. Un po’ a caso. Senza una direzione o uno scopo preciso…
La ballata del Cerruti. Gogangagoganga. La libertà. Shampoo…
Poi, trovo un brano che ricordavo a stento. Ascoltato, forse, una volta. E poi basta. Anche perché non ha certo il ritmo della Torpedo blu. O del per fortuna che c’è il Riccardo che da solo gioca al biliardo… Si può atteggiarsi a intellettuali quanto si vuole, ma la realtà è che le canzoni che ti restano in mente sono quelle che hanno un motivetto orecchiabile…
E questa, per quanto bella, orecchiabile non è. Decisamente. Chi si potrebbe ritrovare a canticchiare sotto la doccia: ma è anche il segno di una logica infantile / è un peccato ricorrente ma veniale / Io, Io, Io….?
Andiamo… Molto più facile intonare “fatti mandare dalla mamma…” o “nessuno mi può giudicare…” (e con questo mi sono candidato al Premio Matusalemme…). Persino fischiettare Bandiera Rossa, o, a seconda dei gusti, Giovinezza… Che poi è testo di Salvator Gotta. Scrittore notevole, ancorché dimenticato…
Comunque “La parola Io”, ascoltata oggi mi ha fatto pensare. Pensare, non per la prima volta che quel nasone buffo di Gaber aveva capito, e anticipato molto della direzione verso la quale ci stavamo avviando. In certo qual modo uno, strano, filosofo. Inaccettabile per l’odierna accademia polverosa. Ma credo che sarebbe piaciuto a gente come Nietzsche. O Leopardi.
Io. La parola (ma può davvero essere considerata una parola come le altre?) più abusata della nostra epoca. E Gaber ne mette in luce tutti i risvolti più meschini. La volgarità del volere in qualche modo affermare se stessi. Costi quello che costi. A spese degli altri. E nei modi più assurdi e volgari. Come i personaggi di “Viaggi di nozze” di Verdone. Che si chiedono: ma come facciamo ad essere davvero originali?
Ovvero a farci notare. Che si può tradurre: a dimostrare di esistere.
Perché, in fondo, è tutto qui il problema. Affermare la propria esistenza. Ovvero cercare di sfuggire alla morsa del nulla in cui si viene costantemente risucchiati.
È quello che, nella sua forma patologica, viene chiamato Narcisismo. Il non avere non solo alcun rispetto, considerazione, sentimento degli altri. Ma, addirittura, non percepirli se non come oggetti. A volte utili. Altre inutili o dannosi ai propri interessi. E quindi o da sfruttare, o da eliminare senza remore di alcun tipo. E il sociopatico arriva sino alla eliminazione fisica. Un altro uomo che gli è di ostacolo, non vale, ai suoi occhi, più di una zanzara che lo infastidisce. Per questo, in alcuni stati degli USA, un omicida diagnosticato come sociopatico, non solo non ottiene attenuanti, come nel nostro Bel Paese. Ma va dritto a friggere sulla sedia. Perché potrebbe iterare il delitto appena gli apparisse conveniente.
Il nostro è, oggi più che mai, il mondo dei Narcisisti. Una società di solitudini e violenza, soprattutto psicologica, sugli altri. Soprattutto su coloro che ci sono vicini, e che avrebbero titolo ad attendersi ben altro comportamento. Protezione, affetto… Amore. Una società di carnefici e vittime. Dove spesso, a sua volta, la vittima diventa carnefice. Di qualcuno più debole. Perché la catena della affermazione bruta del proprio io non ha fine. È qualcosa che ha, a poco a poco, sostituito tutti i legami comunitari. Ovvero i legami fondati sul “munus”. Il dono. Di sé all’altro. Senza interesse. Senza nulla attendersi.
Dono che, però, è la manifestazione non di una assenza di Io. Ma del vero Io. Di cui non siamo mai davvero coscienti. E che sperimentiamo solo nei rari momenti in cui ci dimentichiamo di noi stessi, delle nostre meschine ambizioni, dei nostri sordidi interessi. E ci doniamo. Rudolf Steiner, riprendendo una lunga tradizione filosofica che va da Socrate ad Hegel, addita l’immagine del Christo in Croce come vera esperienza e manifestazione dell’Io. Che nulla ha a che vedere col narcisismo dell’uomo contemporaneao. O meglio, ne è il riscatto e l’antidoto…
Riascolto la canzone. E mentre Gaber pronuncia ossessivamente la parola Io, mi viene in mente che greci e latini ben di rado usavano il pronome di prima persona singolare. Solo in contesti molto particolari. Per affermare un qualcosa di superiore. Per lo più usavano il Noi. Modestia, dicono le grammatiche. Ma mi sembrerebbe più corretto definirlo come il modo di esprimere l’appartenenza ad una comunità. Un senso di…sodalità. L’opposto della solitudine mascherata di menzogna e ipocrisia, del narciso contemporaneo.
“La parola Io /questo dolce monosillabo innocente /è fatale che diventi dilagante /nella logica del mondo occidentale /forse è l’ultimo peccato originale…. Io”
Certo che quel nasone sulla sua torpedo blu era bravo forte. Aveva visto lungo. Dove stavamo andando a finire…