Chi è così bigotto da giudicare le persone per il loro abbigliamento? In fondo è questa la considerazione alla base delle proteste che stanno dilagando nelle scuole di varie parti d’Italia contro professori e presidi che osano pretendere un briciolo di decenza nell’abbigliamento sfoggiato in classe. Qualche passatista vieta l’ombelico scoperto, qualche nostalgico di Cecco Beppe non ama le gonne indossate dai maschi, qualche reduce della prima guerra punica vorrebbe evitare i trucchi tipo passeggiatrice da tangenziale.
In fondo, probabilmente, i prof ed i presidi chiuderebbero un occhio, ed anche l’altro, se gli aspiranti influencer stravaccati in classe fossero in grado di ricondurre i passatisti alle invettive di Marinetti (e se comprendessero il termine “invettive”), se riuscissero ad inquadrare la figura di Cecco Beppe, se avessero una vaga idea delle guerre puniche. Forse il nostro grande Marcigliano farebbe rilevare che i primi a non sapere nulla di passatisti, austriaci e cartaginesi sono proprio i docenti, ma questo è un altro problema.
Così come è un altro problema lo spirito di ribellione dei ragazzi. La voglia di spaccare tutto, di rifiutare il perbenismo di famiglie ed istituzioni scolastiche, di andare a costruirsi da soli il proprio futuro, diverso dalla squallida realtà odierna. Épater les bourgeois! Non c’è nulla di male. Tutt’altro. Però bisogna poterselo permettere. Perché la rivoluzione, od anche una banale rivolta, è qualcosa di molto diverso da una banda di piccoli teppisti che imbrattano di cacca i bagni della scuola e poi, di fronte alle sacrosante sgridate dell’insegnante, vanno a frignare da mamma e papà che denunciano la maestra ottenendo una condanna non dei loro pargoli ma dell’insegnante che reprime la libertà di espressione.
È vero che il rispetto non si dovrebbe imporlo ma dovrebbe essere meritato. E la scuola odierna raramente se lo merita. Ma anche la protesta dovrebbe essere legata a qualcosa di più serio dalla libertà di outfit, dalla volontà di farsi massa politicamente corretta, dalla pedissequa imitazione di influencer o di provvisori divi di rumori corporali spacciati per musica. Copiare il pagliaccio di turno non è un granché come dimostrazione di libertà, di creatività, di ribellione. Ribellione contro cosa? Contro quel sistema che ha trasformato un idiota in un divo televisivo da imitare?
Poi, però, la scuola passa ed i ragazzi restano. Restano impreparati, soprattutto. Dal punto di vista culturale e per la sfida alla vita. Ed i maschi con le unghie laccate e gonnellina, le ragazze con trucco pesante ed ombelico scoperto per ostentare il piercing, entrambi con orecchini e tatuaggi in bella evidenza, si presentano ai colloqui di lavoro. Con la certezza che nessuno li giudicherà per il loro aspetto, per il loro abbigliamento.
Ed è vero, ma solo nel caso in cui l’aspirante lavoratore sia talmente bravo, preparato, competente o che dimostri una tale intelligenza da impressionare l’interlocutore. In tutti gli altri casi, che sono la stragrande maggioranza se non la quasi totalità, l’immagine negativa del primo incontro farà sì che sia anche l’ultimo. Il fatidico “le faremo sapere” si trasformerà in uno scontato silenzio perenne o, quando va bene, nell’ipocrita “purtroppo, per il momento, la sua figura professionale non è prevista”.
E non ci saranno papà e mamma a protestare contro il responsabile delle risorse umane, a denunciare l’amministratore delegato per discriminazione del look, a minacciare il presidente ed a picchiare il direttore dell’azienda. Perché il mondo del lavoro è diverso. Sicuramente ingiusto. Ma è con questa realtà che i giovani con tatuaggi e unghie colorate dovranno fare i conti. E non da una posizione di forza.