“La poesia non è cosa per donne e per preti!” disse, con il suo spiritaccio maremmano il professor Carducci. Che, poi, lo pensasse veramente, è altro paio di maniche. E che volesse intendere che la Donna è poesia, e oggetto privilegiato di poesia, e quindi non può essere poetessa, e che il prete non potendo, in teoria, amare le donne non può essere autentico poeta…beh è altro discorso ancora.
Comunque, il Carducci sapeva bene che Petrarca era prete. E lo erano stati altri che pure amava e commentava. Il Della Casa, tanto per fare un nome…
Quanto alle donne…è scontato che il primo nome che affiori sia quello di Saffo. E più vicino a noi la Dickinson, la Achmatova. E, perché no, la nostra Maria Luisa Spaziani, amata da Montale.
Ma il secolo delle poetesse fu il ‘500. Il Medioevo aveva visto poco. I Lais di Maria di Francia, che non sappiamo se figura reale o leggendaria. Dante, poi, ci dice di Gaia da Camino, prima poetessa in Volgare di Sì. Ma di lei nulla, tranne il nome e il casato.
Invece nel ‘500 le poetesse furono molte. E, a loro modo, grandi. La Vittoria Colonna, amata irraggiungibile da un Michelangelo ormai avanti negli anni. Isabella Morra, che fu bellezza lucana, vivace e colta, ma tenuta segregata nel castello di famiglia dalla gelosia, morbosa, dei fratelli. Che alla fine la uccisero. Come, poco dopo fecero col suo amante, il poeta, soldato e uomo avventuroso Diego Sandoval de Castro.
E poi naturalmente la più celebre. La Saffo novella, come la pianse il Varchi alla sua morte. Gaspara Stampa che cantò come nessun’altra la passione d’ amore al femminile. “Vivere ardendo, e non sentire il male” versi perfetti, passione ardente. Sprecati entrambi, per quel nulla, come poeta e come uomo, che era Collatino da Collalto. Come molte donne straordinarie, la povera Gaspara amava un inetto che le rovinò la, breve, vita.
Però c’è un’altra figura che mi ha sempre affascinato. E di cui si parla poco a scuola. E ancora con un certo qual imbarazzo. Già, perché in questa epoca di trasgressioni plateali, circensi, con boa di piume di struzzo, Veronica Franco crea ancora imbarazzo. Mette alquanto a disagio gli zeloti del politically correct, come metteva in imbarazzo i vecchi bigotti di un tempo.
Perché la bellissima, affascinante, intelligente, colta Veronica poetessa e letterata, musica e capace di conversare d’arte come di filosofia con i maggiori ingegni della sua Venezia rinascimentale, era…una puttana. Una cortigiana di mestiere, altamente stimata, e molto pagata. Tanto stimata che la Repubblica le diede l’incarico di intrattenere Enrico di Francia in visita in città. Pagandole una sontuosa parcella. Il re, poi, sembra sia stato, a sua volta molto generoso. E lei lo ringraziò con versi notevoli per eleganza e grazia.
Era molto bella, Veronica Franco. E questo lo attestano i ritratti. Una bellezza rinascimentale. Femminile, opulenta. Allora le donne magrissime, quasi androgine, sarebbero state guardate con la commiserazione che si riserva ai malati. Ma non era solo bella. Lo attesta la stima, sincera, di tutti i poeti suoi contemporanei. Che, certo, cantarono, in italiano e veneziano, anche la sua bellezza. Il suo fascino. E le sue arti erotiche. Definite, da più d’uno, senza eguali.
Perché era stata istruita in tale arte sin da bambina. Dalla madre, che voleva assicurarle un futuro. A dimostrazione che, per altro, il Dialogo delle Cortigiane di Aretino non è, mera, invenzione e gioco provocatorio. Bensì descrizione della realtà.
La realtà del ‘500. Dove non si cercava di rinchiudere tutto in astratti schemi moralistici. Che possono essere di marca diversa. Perché moralismo era quello bigotto degli anni’ 50, dove neppure si potevano affrontare certi argomenti. E moralismo, ancor più bigotto, è quello odierno. Con il politicamente corretto LGBT, le finte trasgressioni velate di ipocrisia e perbenismo, la sterilità culturale, ed emotiva che connota la nostra epoca. La totale mancanza di senso estetico.
Il Rinascimento fu un secolo di forti contraddizioni, certo. Ma vivo e vitale. Il secolo del lungo, grande Carnevale. Veronica Franco ne è uno degli esempi. Forse una delle figure più emblematiche. E, sinceramente, affascinanti. Con tutte le sue contraddizioni… O meglio, con tutte quelle che a noi, oggi, sembrano contraddizioni. E che, invece, altro non erano che la multiforme espressione della vita. E lei, la Veronica, come la chiamavano familiarmente a Venezia , di questo vitalismo possente e, a suo modo, elegante e puro, di questa voglia, famelica di vita, resta inquieto, ma tutto sommato felice, esempio. Una voce che attraversa i secoli. E ci permette di comprende cosa fosse, un tempo, il Carnevale. Ovvero la vita. Ben altro che un trascinarsi nella angosciata speranza di una sopravvivenza biologica.