Forse Adriano Segatori, il grande psichiatra nonché vicedirettore di Electomagazine, non sarà d’accordo ma lo spettacolo dei parlamentari italiani di tutti gli schieramenti (proprio tutti) impegnati nella gara a chi applaudiva di più Mattarella assomigliava molto ad una esemplificazione della Sindrome di Stoccolma. Una classe politica imbelle che si prostrava di fronte al proprio carceriere, all’uomo che aveva giurato “Mai più!” e che invece era di nuovo lì a causa dell’incapacità conclamata di chi gli stava di fronte. Una classe politica che poteva solo sperare in un autonomo gesto di dimissioni di Mattarella, magari tra un anno. A suo piacere.
La morte della politica dei partiti, dunque. Non un male assoluto, considerando i livelli infimi a cui è precipitata. Il problema è che il vuoto deve essere riempito. In teoria da una classe dirigente della società civile, dai corpi intermedi. Già, in teoria. Perché, nella pratica, non è che il livello qualitativo sia di molto superiore. I tecnocrati nel governo dei Migliori hanno dimostrato limiti imbarazzanti, al di là di obiettivi semplicemente criminali di qualcuno. Con questa gente le prospettive di ripresa reale sono inesistenti.
Dunque si ritorna, come nel Gioco dell’Oca, alla casella di partenza. È inutile illudersi che si possa ripartire alla pari. È evidente che, in economia, la forza persuasiva di Confindustria sia infinitamente superiore rispetto a quella di sindacati in caduta libera perché più attenti agli isterismi dell’Anpi e delle associazioni per i diritti civili piuttosto che ai diritti dei lavoratori. Liberi di scegliere, certo. Ed anche di scomparire.
Anche se, negli ultimi periodi, Carlo Bonomi ha ridotto drasticamente le esternazioni, il presidente di Confindustria continua comunque a condizionare i maggiordomi della politica. E li condiziona molto più di quanto riescano a fare le confederazioni dei commercianti, impegnate esclusivamente a chiedere soldi pubblici, o quelle degli artigiani e degli agricoltori. Considerando che la manifattura italiana vale circa il 15% del Pil a fronte del 66% del settore servizi, il ruolo conquistato da Confindustria appare sovradimensionato. Merito di Bonomi e di chi l’ha preceduto, demerito di politici ignoranti e della scarsa capacità comunicativa e di studio delle altre categorie.
Ma se la politica vuole tornare ad avere un ruolo, non può continuare a fare da megafono all’ufficio studi di Confindustria. Con una situazione paradossale, peraltro. Perché la grande impresa ha già scelto il Pd come partito di riferimento. In attesa, e nella speranza, che Calenda riesca a ricavarsi uno spazio di rilievo.
Dunque per la Trimurti dell’ex centrodestra si aprono altre prospettive. Pmi, artigiani, servizi, mondo agricolo. In teoria. Perché in pratica i vari Brunetta, Giorgetti e Lollobrigida sono impegnati nella gara a chi arriva prima a far proprio l’ultimo slogan confindustriale. È vero che i piccoli imprenditori troppo spesso non riescono a capire che gli interessi della grande industria sono in totale contrasto con quelle delle Pmi, ma toccherebbe alla politica lo sforzo per farlo comprendere.
Neanche a parlare, ovviamente, dei diritti dei lavoratori. Delle retribuzioni, degli orari, del potere d’acquisto delle famiglie, dell’impoverimento del ceto medio, della soglia di povertà del proletariato. Anche comprensibile, come scelta. Confindustria ha un ufficio studi che fornisce ai politici le veline da leggere, gli altri forniscono solo comunicati con le lamentele. Anche i mitici approfondimenti della Cgia di Mestre hanno perso qualità. Ed in ogni ambito, dall’economia alla politica, la conoscenza è il fattore vincente. Ma per conoscere occorre studiare. Meglio leggere le veline di Confindustria.