“La politica senza politica” dello storico, politologo e intellettuale di riferimento della sinistra italiana Marco Revelli, edito da Einaudi, è il libro giusto per decifrare il terremoto politico e psicologico che sta rivoluzionando le democrazie occidentali.
Una lettura fondamentale per orientarsi nella complicata emergenza democratica che stiamo vivendo. Una profonda crisi globale che ha reso necessaria un’ analisi sulla metamorfosi del populismo del terzo millennio.
Di per sè il termine populismo non ha una connotazione positiva, in quanto sta a indicare una deriva della democrazia. L’emergenza ha mobilitato politologi di mezzo mondo ad interrogarsi come l’elettorato identitario della Lega si sia rassegnato al connubio con il Movimento 5 Stelle. Secondo lo scrittore il cosiddetto populismo rampante è in realtà senza popolo.
Nello sciame che ha invaso le urne il 4 marzo, non esiste più “il popolo di sinistra” né il “popolo padano” né “il popolo del M5S”, c’è un cocktail non ben shakerato di tutti e tre i populismi italiani. Ormai siamo spettatori di una sinistra abissalmente lontana dal mondo che Gramsci pensò nel suo Ordine Nuovo: un’egemonia della sinistra fondata sul lavoro operaio come cellula di uno Stato Nuovo che assolutamente non può rispecchiarsi nella visione attuale del mondo dove il lavoro, come soggetto sociale, si sta via via dissolvendo.
Una diseguaglianza sociale che crea disordine in un sistema politico contraddittorio destinato a una crisi inevitabile. Una delle caratteristiche della società odierna è che gli individui si fidano sempre di meno gli uni degli altri. Finita l’era dell’ottimismo tecnologico e la fede nel progresso, le basi materiali della fiducia sgretolandosi hanno toccato inevitabilmente il rapporto tra partiti e cittadini. Per gli analisti è un’equazione inevitabile: più si abbassa il livello di fiducia nei partiti, più cresce la passività tra i cittadini nei confronti della politica.
La crisi della fiducia quindi rappresenta il vettore di ciò che impropriamente viene denominato “populismo”. In questa caduta di fiducia nei partiti ormai conclamata, parallelamente si inserisce la sfiducia nelle istituzioni, che in una democrazia parlamentare come la nostra appare lontana dal rapporto tra popolo e politica che caratterizzò l’Italia degli anni Sessanta e Settanta. Nonostante quelli fossero anni di lotte sociali, conflitti e contestazioni, la fiducia nelle istituzioni era altissima arrivando a toccare picchi del 70%.
Il mondo è cambiato ma in politica non si registra questo mutamento, è finita la democrazia dei partiti come quella dell’ impresa. I Partiti politici hanno svolto un ruolo di identificazione per decenni ma un certo punto, a causa di diversi fattori, in tutti i paesi occidentali sono entrati in crisi contemporaneamente. Il populismo è la forma informe che assume il vuoto lasciato dalla sinistra.
Tutto questo è potuto accadere perché le alte rappresentanze della sinistra si sono spostate dalla parte di chi stava in alto, non in basso, facendo passare la globalizzazione come una redistribuzione globale della ricchezza. Invece era una concentrazione di ricchezza in alto su ogni scala nazionale, facendo scivolare buona parte della società, del ceto medio e del mondo del lavoro, verso gli inferi. Un populismo singolare che manovra le banche e che si insinua nei meccanismi del governo per mettere gli amici nei posti che contano.
La principale delle malattie delle nostre democrazie è sicuramente antropologica, nasce dal disagio dell’essere delle persone e dal loro sistema di relazioni che è andato in sofferenza. Lo riscontriamo quotidianamente perché il populismo è spesso caratterizzato dal malessere profondo della democrazia contemporanea, che è espressione di un popolo rimasto senza scettro verso un “élite corrotta” che si traduce in un pervasivo processo di delegittimazione e di sfiducia in ogni classe dirigente identificabile con una crisi di sistema.
Tutto questo – suggerisce l’autore – accade quando un popolo non si sente rappresentato, come dimostra l’ascesa negli Stati Uniti di Donald Trump, per effetto combinato della dissoluzione dei partiti tradizionali. Marco Revelli spesso esamina con acuta analisi le tre forme di populismo italiano: il telepopulismo berlusconiano, il cyberpopulismo grillino e il populismo dall’alto di Renzi.
Più di un ventennio di populismi, che ha contribuito a una crescita esponenziale delle disuguaglianze che ha caratterizzato tutto l’Occidente globalizzato, determinando la sconfitta di una sinistra storica che come forza politica e sociale si era assunta la guida e la rappresentanza del lavoro. Al momento, come sottolinea l’autore, tutto questo ha generato un clima diseguale, avaro, esclusivo, escludente. Potrà esserci una luce in fondo al tunnel se la politica saprà adottare decisioni che indichino una direzione. E la sinistra dovrà diventare antropologicamente simile al popolo che vorrebbe rappresentare.